di Carlo Smuraglia
Non ho alcuna intenzione di procedere ad una verifica delle scelte politiche del Governo e del Parlamento, sulle quali avrei – magari – non poche osservazioni da fare, ma non in questa sede. L’intento è invece quello di verificare il livello di “rispetto” della Costituzione da parte della maggioranza di Governo, intendendo per tale non solo l’osservanza puntuale delle regole scritte nella Carta, ma l’aderenza, o meno, in concreto, a quello che molti definiscono, al di là delle singole disposizioni, “lo spirito” della Costituzione. A questo fine, occorre una brevissima premessa, solo per chiarezza.
Secondo l’art. 1 della Costituzione, la nostra è una Repubblica democratica fondata sul lavoro; la sovranità popolare appartiene al popolo, che la esercita attraverso lo strumento parlamentare. Implicita, in questa disposizione e in altre, la necessità di una reale partecipazione dei cittadini, in altre parole di un serio ed effettivo esercizio della sovranità popolare. Da ciò, il fondamentale rilievo della rappresentanza e della funzionalità rigorosa del sistema parlamentare, fondato sulla centralità del Parlamento.
Ma accanto a questi “pilastri” essenziali, c’è un sistema fatto non solo di princìpi, di regole e di valori, ma – come accennato – anche di un complesso di elementi che sono considerati lo “spirito della Costituzione” (il valore della persona, la dignità, il lavoro, la solidarietà, l’uguaglianza, la legalità e l’etica, l’antifascismo e l’antirazzismo, per limitarsi all’essenziale).
In un sistema del genere, affermare – come si è fatto da taluno – che la maggioranza decide come vuole, perché investita dal popolo e dunque ha sempre ragione, come se le regole non esistessero per tutti, è non solo privo di fondamento, ma addirittura pericoloso. In teorie del genere eccelse Berlusconi, a suo tempo; ma sembra aver trovato qualche emulo in alcuni autorevoli componenti della maggioranza che ci governa.
Per il resto, il sistema di vertice istituzionale (Parlamento, Governo, Presidente della Repubblica) ha una coerenza che non può essere in nessun modo intaccata e messa in discussione. Il Parlamento è il luogo in cui si elabora, si discute, si approvano leggi; il Governo è organo collegiale che esprime la volontà e le decisioni dell’esecutivo e, in qualche modo, della maggioranza politica.
Ho riassunto molto brevemente questi princìpi, peraltro chiari, non certo per fare una “lezione” di diritto costituzionale, che sarebbe del tutto inopportuna, ma per fissare alcuni punti fermi, su cui basare le concrete riflessioni che seguiranno, a riguardo di come quei princìpi, quelle regole, quello “spirito” costituzionale, vengano intesi in questa particolare fase della vita politica nazionale. Comincerò, dunque, dai fatti più semplici, alcuni addirittura di apparente modesta portata, ma significativi.
La “partenza” come suol dirsi, non fu esaltante, sotto questo profilo. Fu sferrato un attacco violento al Presidente della Repubblica, anche da parte di autorevoli esponenti della maggioranza, solo perché si era permesso di esercitare un potere inequivocabilmente conferitogli dall’art. 92 della Costituzione; si arrivò addirittura a parlare di impeachment e di invocare l’art. 90 della Costituzione.
Si continuò con la nomina di un Presidente del Consiglio, che dovrebbe dirigere la politica generale del Governo, di cui è responsabile (art. 95), scegliendo una persona degnissima ma estranea a tutta l’elaborazione politica effettuata dalle due componenti del futuro Governo ed al cosiddetto “contratto” da loro deliberato. La stessa definizione, come “contratto” di quello che, al più, poteva essere un programma politico di Governo, apparve poco in linea con i precedenti e con lo stesso spirito della Costituzione.
Ma questo è ancora poco: i primi passi, in sede parlamentare, del nuovo Governo, si sono realizzati prevalentemente attraverso decreti-legge (sul lavoro, sulla pace fiscale, sulle pensioni, sulla fatturazione elettronica, sul provvedimento collegato al bilancio). Per altri provvedimenti di cui si parla molto, ma che sono tuttora in gestazione, si pensa ancora ai decreti-legge.
Ora, il decreto-legge è consentito dalla Costituzione (art. 77) per i casi straordinari di “necessità e di urgenza”. Nei casi di specie, l’urgenza era rappresentata soprattutto dal desiderio di dimostrare al “popolo” che si stavano realizzando le promesse e gli impegni assunti nella campagna elettorale, trascurando il fatto che si tratta di un rimedio riservato ai “casi straordinari” proprio perché il decreto entra immediatamente in vigore e solo successivamente è esaminato dal Parlamento, che quindi viene – in qualche modo – limitato nei suoi poteri e nelle sue scelte.
Immagino subito due obiezioni: la prima è che di decreti-legge si è abusato, talvolta, anche dai governi precedenti; è facile rispondere che può anche essere vero, ma non abbiamo mai risparmiato la critica, su questo punto, a nessun governo. Non c’è ragione alcuna, dunque, per essere più benevoli con un Governo che muove i suoi primi passi praticamente solo con decreti-legge.
La seconda obiezione è che il decreto-legge deve essere autorizzato dal Capo della Stato, come è avvenuto in tutte queste occasioni. Ma anche in questo caso, non è difficile rispondere che dopo mesi di inerzia governativa e parlamentare, tra elezioni e formazione del Governo, il Presidente della Repubblica non poteva non tener conto dell’esigenza di consentire il ricorso ad uno strumento di immediata applicazione; ma in vista di una “straordinarietà” del tutto peculiare.
Insomma, sotto nessun profilo si giustifica la scelta da parte di un Governo di utilizzare – a mani basse – questo strumento, pur disponendo di una maggioranza così ampia da poter condizionare, anche nei tempi, la discussione parlamentare su un disegno di legge.
Per di più, in alcuni casi, si è fatto ricorso al voto di fiducia; ed anche questo è – in qualche modo – espressivo di una volontà di far presto, superando ogni difficoltà, pur sapendo che la fiducia esautora il Parlamento, perché fa cadere tutti gli emendamenti e riduce ogni possibilità di concreta discussione. Inoltre, il ricorso al voto di fiducia può essere concepibile, quando il voto è in pericolo, per la forza delle opposizioni; assai meno esso appare accettabile quando la fiducia viene posta per imporre la “disciplina” agli eventuali dissidenti all’interno della maggioranza stessa.
Il colmo, così raggiunto, è stato superato con la così detta “Finanziaria”, conclusa praticamente in poche ore, senza investire le commissioni competenti e soffocando la discussione con il voto di fiducia. Su questo, non ci sono precedenti da evocare; nei miei anni al Senato ho visto diverse finanziarie approvate in extremis, alla vigilia di Natale, ma mai, dico mai, è accaduto che si mortificasse a tal punto il Parlamento su un tema di rilievo assoluto, quale è quello della legge di bilancio, che è impegnativa ad ogni effetto, condizionando la stessa possibilità di azione del Parlamento e del Governo. In questo caso, il distacco dalla Costituzione è stato veramente clamoroso, come è stato segnalato da tutta la stampa e da molte prese di posizione.
Ma non è finita. Adesso, si sta affrontando la discussione su misure di revisione della Costituzione e qui la cosa si fa ancora più delicata, come è ovvio.
Della riduzione del numero dei parlamentari si potrebbe certo discutere, ma non con motivazioni puramente economiche e di risparmio. Occorrerebbe dimostrare che la funzionalità del Parlamento è compromessa dal numero eccessivo di parlamentari e dai costi superflui che ciò provoca. Se invece si parla solo di un risparmio di spesa, allora tutto cambia, perché le istituzioni hanno un costo necessario e giustificato. Se si riduce tutto ad un problema economico, si fomenta l’antipolitica, ancora una volta, per di più senza alcun costrutto. Il Parlamento deve lavorare bene, e spetta ai gruppi di garantire che i parlamentari facciano il loro dovere; se ciò accadesse, tutto funzionerebbe meglio ed il numero dei parlamentari diventerebbe irrilevante, proprio perché di lavoro ce n’è molto ed è importante che sia fatto bene e presto; e questo non è davvero un problema di costi.
Ancora più grave è la discussione sul referendum propositivo, per molte ragioni. L’istituto esiste in alcuni Stati, (non molti per la verità) e in alcuni di essi (la Svizzera) pare che funzioni anche abbastanza bene. Tuttavia lo strumento è, di per sé, piuttosto pericoloso e non fecero certo male i Costituenti a non introdurlo, prevedendo, invece, il referendum abrogativo, in due forme distinte: nell’art. 75, che disciplina il referendum abrogativo di una legge o altro atto avente valore di legge (con l’esclusione di alcune materie); nell’art.138, nell’ambito del procedimento di revisione della Costituzione, con alcune limitazioni.
Ci sono ragioni molto valide per considerare con particolare attenzione il delicato problema del referendum. Sarebbe estremamente pericoloso un referendum propositivo senza quorum, in cui, alla fine, un gruppo limitato di cittadini potrebbe imporre al Parlamento di adottare una legge impegnativa per tutti.
La questione è molto seria, non solo perché – come appare evidente – ci sono delle fortissime perplessità sull’utilità di un referendum “propositivo” ma anche e soprattutto perché, nella mancanza di un quorum è facile ravvisare un vulnus alla libertà e alla responsabilità del Parlamento. Un referendum senza quorum, e per di più senza limite di materie, rappresenterebbe, a mio parere, un vero e proprio attentato alla centralità del Parlamento, che è basilare nella struttura della prima parte (e in particolare dell’art.1) della Costituzione.
È ben vero che nella discussione parlamentare sembra raggiunta un’intesa tra le due componenti della maggioranza sulla previsione del quorum, peraltro piuttosto limitato e inserito nel contesto di un sistema così complesso, da profilare la possibilità di una sorta di “ballottaggio “tra la proposta referendaria e le linee espresse dal Parlamento, con la possibilità (gravissima) di essere esteso a qualunque materia.
Sarebbe, in concreto, una vera aberrazione, foriera di rischi e contrasti assai dannosi per il sistema e improduttiva di effetti pratici che vadano a vantaggio della partecipazione dei cittadini. Seguiremo attentamente l’iter parlamentare di queste proposte, ma non nascondendo il nostro scetticismo sulla bontà complessiva della scelta e la convinzione che essa possa risultare addirittura pericolosa.
E qui è facile arrivare al sospetto che si tratti di un’operazione solo apparentemente democratica, ma in realtà compressiva della stessa concezione della rappresentanza. La democrazia diretta ha ben altri modi per esprimersi; e diversi di questi sono già previsti dalla Costituzione. Mi riferisco alla iniziativa legislativa popolare ed alla petizione, istituti disciplinati rispettivamente dall’art. 71 e dall’art. 50 della Costituzione. Entrambi, è vero, hanno funzionato piuttosto poco, in questi anni, non solo per ragioni politiche, ma anche per la mancanza di una disciplina organica più puntuale, che imponesse al Parlamento obblighi precisi, anche sul piano temporale.
La mancanza di questi ha finito per scoraggiare le iniziative legislative popolari; ma a questo si potrebbe porre rimedio con facilità, inserendo nella Costituzione termini entro i quali il Parlamento deve assumere una decisione sui progetti.
Se invece si insiste sul referendum propositivo per di più senza quorum, o con un quorum modesto e con gli altri limiti di cui si è detto, è chiaro che c’è una volontà politica sottesa, volta ad esaltare la democrazia diretta a danno di quella prevista, formalmente, dalla Costituzione. Se così fosse, ci sarebbe davvero di che preoccuparsi; e la mia personale convinzione è che perfino il mio tradizionale ottimismo sarebbe costretto a cedere di fronte a questo stravolgimento della struttura di una democrazia fondata sulla rappresentanza e sulla centralità del Parlamento, tuttora – a mio parere – validissima.
Preoccupazione che diviene ancora più forte, quando si pensa ad un altro progetto di riforma costituzionale, diretto a colpire l’art. 67, che assicura l’esercizio della funzione parlamentare “senza vincolo di mandato”. La ragione per cui i Costituenti vollero questa norma, era quella di garantire una vera libertà di giudizio, di discussione e di voto. L’adozione del vincolo di mandato finirebbe per svilire la funzione del Parlamento, sottoponendo i parlamentari ad una rigida disciplina di partito, contrastante nettamente con l’idea e il principio che chi va in Parlamento non rinuncia alle sue idee ma sa – e deve sapere – di rappresentare tutta la Nazione. Anche in questo caso la progettata riforma appare grandemente pericolosa e tale da fare temere fortemente per la sorte della nostra democrazia.
So benissimo che la politica di oggi non risponde appieno né alle esigenze dei cittadini, né a quelle della comunità nazionale; ma è questo tipo di politica che va cambiato, tornando, ancora una volta, alla puntuale indicazione della Carta Costituzionale, che all’art.49 riconosce il diritto di associarsi in partiti, ma solo ove essi intendano “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. È la politica attuale che va ricondotta alle origini, nel contesto di un sistema costituzionale che conserva tutta la sua validità, nella riconosciuta lungimiranza dei Costituenti.
Insomma, se metto insieme tutto ciò che ho rilevato fin qui in crescente ordine di importanza e di grandezza, mi trovo ad essere davvero preoccupato. Non sono contrario, per principio, ai cambiamenti, ma temo quelli che – stravolgendo di fatto il sistema costituzionale – finiscono per porre a rischio la stessa struttura della Costituzione, fondata sulla democrazia rappresentativa, ma con alcuni riconoscimenti anche di forme di democrazia diretta.
La mancanza di rispetto per la Carta fondamentale, così come gli atti e i progetti sostanzialmente stravolgenti cui ho fatto cenno, sono elementi di preoccupazione vera per il futuro del Paese. Io sono, ancora una volta, favorevole all’espansione della partecipazione dei cittadini, all’incremento degli strumenti della rappresentanza e dell’iniziativa popolare, così come previsto dalla Costituzione, con qualche integrazione, ma non credo alle smanie riformatrici, che si richiamano ad una pretesa democrazia diretta. Sono del parere che di questa preoccupazione debbano farsi carico tutti i cittadini che hanno a cuore la democrazia e credono allo splendido lavoro che fu compiuto, 70 anni fa, dai Costituenti, ed al suo perdurante valore.
Concludendo, il quadro che ho cercato di delineare, sia per quanto riguarda l’inosservanza della Costituzione, sia per ciò che attiene alle preannunciate riforme della stessa, è tale da indurre alle più attente riflessioni anche sulla questione di fondo, che è sempre quella dell’attuazione della Costituzione, la quale deve essere realizzata in tutte le parti che impongono di dare concretezza ed effettività ai fondamentali princìpi, ai diritti così come ai doveri.
È fin troppo noto che all’imperativo categorico dei Costituenti, espresso con varie formule, ma assai preciso e netto, per esempio in alcuni articoli (3-4-9-54, ma anche in molti altri), i Governi che si sono susseguiti dopo l’entrata in vigore della Carta, hanno dato risposte parziali, insufficienti o addirittura del tutto carenti. Dunque, sarebbe questo il vero impegno da assumere oggi, anziché tradire, nei fatti, lo spirito della Costituzione, e proporre modifiche sostanzialmente stravolgenti del sistema costituzionale. Di questa attuazione necessaria e urgente, alla quale l’Anpi ha dedicato e sta dedicando grande lavoro ed impegno, il “contratto” di Governo non fa cenno alcuno, né si delineano programmi ed iniziative serie in tale direzione. Spetta ai cittadini consapevoli ed amanti della democrazia, portare avanti con forza questo obiettivo, perché è da questa attuazione e non da improbabili riforme che dipende il futuro del nostro sistema democratico e, complessivamente, del nostro Paese.
Questo articolo è stato pubblicato da Patria Indipendente, testata giornalista dell’Anpi, il 24 febbraio 2019