Landini segretario della Cgil: le parole chiave in attesa del 9 febbraio

28 Gennaio 2019 /

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di Loris Campetti
Maurizio Landini ha preso in mano la ultracentenaria Cgil con la forza di un tornado, ma la sua non è una forza distruttrice. Si potrebbe parlare di sindacato del cambiamento se non fosse che chi usa questo sostantivo in politica è un gattopardo che vuole cambiare tutto per non cambiare niente, come fa il governo gialloverde o giallonero che dir si voglia con le politiche economiche, liberiste erano e liberiste restano. Landini vuole bene alle persone che rappresenta, ha con loro una connessione sentimentale per dirla con Antonio Gramsci.
In una stagione di frantumazione del lavoro che distrugge i valori e i diritti conquistati nel Novecento e cancella l’idea fondativa per cui a parità di prestazione dev’esserci parità di trattamento e di contratto, bisogna fare sindacato di strada, andare a trovare i lavoratori dove sono, nelle fabbriche, nei cantieri, nei sottoscala, nei campi, nei magazzini, tra i ciclisti della pizza. E le Camere del lavoro per essere al passo coi tempi devono tornare alle origini ottocentesche, alle Società di mutuo soccorso in cui si entrava analfabeti e si usciva sapendo parlare, capire, contare, istruitevi e poi agitatevi e organizzatevi diceva ancora Gramsci.
La Cgil deve spalancare le sue porte per far prendere aria all’interno e offrire un rifugio a chi sta fuori, è solo e dunque è debole. Le filiere del lavoro vanno seguite per intero e a tutti quelli che vi lavorano vanno garantiti stessi diritti. Perché oggi non siamo più analfabeti ma ci fregano lo stesso, dice con un linguaggio inequivocabile il nuovo segretario generale della Cgil.

In una stagione in cui i poteri forti e quelli a essi subalterni, dalla politica ai media, sono riusciti a far passare l’idea che il nemico è quello con la pelle nera, o comunque quello che sta un po’ peggio di te, bisogna rovesciare la narrazione, gridare che l’unico nero nemico è il lavoro nero e non il senegalese piegato nei campi a raccogliere i pomodori per i nostri ragù, umiliato e sfruttato dai caporali al servizio dei padroni peggio che ai tempi di Peppino Di Vittorio, l’uomo che ha rifatto la Cgil dopo la Liberazione, l’uomo della Costituzione, il bracciante figlio di un bracciante morto sul lavoro e marito di una bracciante, colui che aveva insegnato ai braccianti a non togliersi il cappello al cospetto del padrone. Il marchio di qualità di una scatola di pelati non dev’essere solo fatta di pomodori bio e puliti ma anche del rispetto della dignità di chi li ha raccolti. La qualità dell’automobile elettrica non deve garantire solo la qualità e la quantità delle emissioni ma anche i diritti delle tute blu che l’hanno costruita.
Maurizio Landini non nasce bracciante ma apprendista saldatore, poi operaio, poi delegato, poi facendo tutta la gavetta e la trafila della più grande organizzazione democratica italiana arriva al vertice della Cgil per dire che la Cgil non è il suo segretario ma le migliaia e migliaia di delegate e delegati che la fanno vivere. Gli operai di Pomigliano a cui non fa difetto l’ironia, quelli che non si sono levati il cappello al cospetto di Marchionne, alla sua elezione l’hanno battezzato “il saldatore della patria”. Anche i sobri operai di Brescia si sono lasciati andare e gli hanno portato sul palco una maschera e un paio di guanti da saldatore. Mai dimenticare le origini. E tutti in coro nello stadio dei lavoratori hanno scandito “uno di noi/ Maurizio uno di noi”.
Siccome in un paese solo non si fa il socialismo ma neppure si riescono a difendere i lavoratori, dal palco della Fiera del Levante di Bari Landini lancia l’Expo internazionale del lavoro, e gli scappa detto “proletari di tutti il mondo unitevi”. Per chi ancora finge di non capire e lo accusa di timidezza verso i 5 Stelle e il governo fa presente che i due vicepremier che parlano di povertà e lavoro non sono mai stati poveri e mai hanno lavorato. Perché battersi contro i vulnus prodotti dal Pd e dai suoi alleati sul lavoro, dal jobs act all’art. 18, non vuol dire stare con i sovranisti che fanno la stessa politica, e perché la Cgil è di per sé antifascista e antirazzista.
Lo dice e lo spiega coi fatti, la prima azione da segretario è stata la partecipazione a un’assemblea dell’Anpi a Bari insieme alla presidente Carla Nespolo e la seconda andare a visitare il Cara di Bari, sperando che non faccia la fine del centro di accoglienza e integrazione di Castelnuovo di Porto.
C’è un concetto che va chiarito: la Cgil è indipendente dai padroni, dai partiti e dai governi. Non è e non vuole essere un partito, ma essere autonomi non vuol dire essere neutrali e tanto meno assenti, il nuovo segretario della Cgil non si accontenta infatti di cambiare il lavoro, pretende con il suo sindacato di cambiare la società. È chiaro, adesso?
Potreste pensare: questo ci racconta i sui sogni e nasconde che la Cgil è arrivata al Congresso spaccata a metà come una mela, come tutto ciò che odora di sinistra. Allora rispondo che ho fatto l’elenco degli impegni del saldatore Landini, non ho raccontato i miei ma semmai i suoi di sogni, che siano anche i miei non frega a nessuno. Secondo, le conclusioni del Congresso segnano un percorso opposto a quello della divisione dell’atomo che uccide l’intera sinistra italiana in tutte le sue espressioni e micro-espressioni: si può fare sintesi, si possono tenere insieme storie e pensieri diversi, uomini e donne, giovani e vecchi, bianchi e neri (di pelle, non di testa) con un progetto condiviso, per dirla con Landini anche volendosi bene.
Certo, c’era e c’è chi pensa che comunque serve al sindacato un partito di riferimento, ma tutti hanno dovuto prendere atto che quel partito non c’è e non tocca al sindacato rifarlo, ha già abbastanza impegni, può però offrire come bussola agli uomini e alle donne di buona volontà i valori e i diritti delle persone, che vengono prima, prima di tutto. Una volta si parlava di sindacato come cinghia di trasmissione del partito, c’era persino chi credeva in questa formula. Ora il problema non è se questa fosse la strada giusta o sbagliata, e io credo che fosse sbagliata. Il problema è che, da vocabolario, la cinghia di trasmissione serve a collegare in modo elastico due alberi, ma se uno dei due alberi non c’è è inutile dividersi sulla sua utilità. Non serve aver fatto l’operaio metalmeccanico o l’apprendista saldatore per capirlo.
La stagione è cambiata da quando la Fiom e la Cgil si scontravano sul diktat di Marchionne tra lavoro e diritti, le idee di Marchionne sono andate al governo, ieri con Renzi e oggi con la Lega e il M5S in perfetta continuità. Se si vuole fermare la vendetta di classe (quella dei padroni), riconquistare i diritti delle persone e delle organizzazioni, difendere la dignità dei lavoratori, dei pensionati, dei disoccupati, dei migranti, delle persone, se si vuole invertire la tendenza devastante a spostare la ricchezza dal basso verso l’alto, se si vuole ripristinare la giustizia fiscale, bisogna fare un passo avanti e provarci insieme. Questo il messaggio che arriva dalla terra di Peppino Di Vittorio, sarebbe bello se venisse raccolto da chi pensa che sinistra e destra non sono la stessa cosa.
Ultimo quesito: può farcela il tornado Landini, secondo cui la Cgil non è lui ma le donne e gli uomini che all’interno e all’esterno si battono non per, ma con i lavoratori, a rovesciare come un calzino la Cgil e, partendo dalla Cgil, la società? Risposta impossibile. Credo si possa dire che il saldatore della patria è l’unico che può provarci, per evitare che la Cgil faccia lentamente la fine del Pd e si ritrovi a rappresentare una minoranza di quelle persone che per vivere hanno bisogno di lavorare.
Riunificare il lavoro, combattere le diseguaglianze, intanto costringere il governo a cambiare le politiche economiche e sociali. Con queste parole d’ordine il 9 febbraio la Cgil andrà in piazza insieme a Cisl e Uil. Mi verrebbe da ripetere a chi legge questo articolo ciò che ha detto Landini ai suoi congressisti: ognuno di voi ne porti 10 in piazza, per concludere con un immancabile “al lavoro e alla lotta”.

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