di Chiara Saraceno
Senza diritti, al di fuori della protezione delle convenzioni internazionali sui diritti dei bambini e ragazzi che pure l’Italia ha sottoscritto. Dopo l’approvazione della nuova legge sulla sicurezza i figli di coloro che hanno ottenuto protezione umanitaria dovranno seguire il destino dei genitori, obbligati, spesso con il preavviso di pochi giorni, a lasciare i luoghi in cui avevano trovato accoglienza e progetti di inserimento.
La nuova legge, infatti, esclude i titolari di protezione umanitaria da ogni progetto di inserimento, consentendo solo di portare a termine quelli già iniziati. Zelanti prefetti hanno deciso tuttavia di accelerare i tempi, togliendo ogni tipo di sostegno economico per queste persone, inclusa la semplice ospitalità.
La loro permanenza sarà quindi affidata solo alla buona volontà, e alle risorse (per altro fortemente ridotte anche per chi avrà titolo a rimanere), delle associazioni e dei comuni che li ospitano. Anche i bambini e i ragazzi, dunque, rimarranno, come i loro genitori, senza casa, senza diritto a prendere una residenza temporanea e probabilmente anche senza scuola. Non solo, infatti, sarà difficile per loro andare a scuola se dovranno vagare alla ricerca di ricoveri più o meno di fortuna e magari anche essere costretti all’accattonaggio.
Qualche zelante sindaco troverà una motivazione pseudo-legale in più per escludere del tutto almeno questo specifico sottogruppo di “stranieri” dal sistema educativo, senza dover ricorrere ai “sotterfugi” della quota massima di “stranieri” nelle classi, costringendo gli “eccedenti”, ancorché regolarmente residenti, a lunghi pendolarismi, come avviene a Monfalcone e a Trieste, o imponendo certificazioni impossibili per escluderli dalla mensa come a Lodi.
Lo ha già fatto il sindaco di Udine, che ha fatto votare dalla sua maggioranza un regolamento che esclude dagli asili nido i figli di coloro che godono di protezione umanitaria in nome del fatto che “non hanno la residenza”. In barba alla convenzione sopra ricordata ed anche al principio che, nella legge sulla buona scuola, estende il diritto all’educazione anche alla primissima infanzia. È molto probabile che altri seguano a ruota, coinvolgendo anche le scuole materne ed elementari. D’altra parte, se il loro soggiorno legale è a termine e, insieme ai loro genitori, riceveranno un decreto di espulsione alla scadenza, perché evitare di fare perder tempo a questi bambini nell’attesa, aiutandoli invece a crescere bene? Eppure anche questo sarebbe un modo, sia pure indiretto, di “aiutarli a casa loro”.
Paradossalmente a questi bambini e ragazzi sarebbe convenuto arrivare da noi “non accompagnati”, o perdere i genitori nel viaggio. Ricadrebbero nei casi speciali cui oggi è ristretta la protezione umanitaria e ci si dovrebbe preoccupare di far fronte ai loro bisogni. Avere anche solo un genitore o un parente li trasforma in puro “bagaglio appresso” agli occhi sia del legislatore, sia dei suoi zelanti esecutori.
Del resto, in un paese in cui ci si preoccupa pochissimo della povertà minorile, anche autoctona, degli effetti anche di lungo periodo che ha sulla salute, lo sviluppo cognitivo, del senso di sé, del proprio valore e capacità, in cui “di chi si è figlio” è un destino totalizzante da cui si sfugge solo con fatica, non può stupire che questo succeda. Il modo in cui trattiamo i figli dei migranti da questo punto di vista è una cartina di tornasole. Sarebbe interessante sapere che cosa ne pensano l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza ed anche il ministro dell’Istruzione.
Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano La Repubblica il 2 dicembre 2018