Italia: una rivoluzione apparente al servizio dell'egemonia neoliberale

22 Novembre 2018 /

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di Stefano Palombarini
Il neoliberismo, espressione della sovranità nazionale
L’azione del governo italiano è al centro dell’attenzione in Europa, in primo luogo a causa della “disobbedienza” alle indicazioni della Commissione UE. Le ragioni del conflitto tra le istituzioni europee e la coalizione che si è formata dopo le elezioni di marzo meritano riflessione. Ma va immediatamente sottolineato come questo scontro abbia una forte valenza simbolica, in quanto convalida il racconto di una sovranità schiacciata dai trattati comunitari: indipendentemente dalla sua connotazione politica, l’alleanza M5S-Lega attira le simpatie di chi concepisce l’Unione europea come una camicia di forza anti-democratica che impedirebbe alla volontà popolare di determinare le politiche pubbliche.
Il precedente della Grecia, vittima di un vero ricatto fondato sulla necessità per quel paese di ottenere i prestiti di Fmi e Bce, è citato spesso, ma a torto. L’Italia si finanza sui mercati, dispone ancora di un forte risparmio interno e non corre il rischio di insolvenza. Cosa rischia disobbedendo alla Commissione? L’apertura di una procedura d’infrazione per deficit eccessivo, che nel peggiore dei casi potrebbe concludersi con una multa certo considerevole, ma che non potrà eccedere lo 0.5% del Pil.

Considerato che il governo italiano prevede un deficit al 2.4%, pagare la multa sarebbe possibile senza aumento delle entrate né ulteriori tagli alla spesa pubblica, il tutto senza superare la soglia di un deficit al 3%… Ma in uno scenario di ribellione coerente ai “diktat” della Commissione, il governo potrebbe anche decidere di non pagare; a quel punto, la palla tornerebbe nel campo delle istituzioni europee che, per reagire con sanzioni più dire, rischierebbero di mettere in pericolo l’intera costruzione UE e, di conseguenza, la loro stessa esistenza.
La sola vera arma a disposizione dell’Unione è una forma di persuasione al contrario esercitata nei confronti dei mercati finanziari: se si diffondesse l’ipotesi concreta di un’uscita dell’Italia dalla zona euro, i tassi d’interesse sul debito salirebbero rapidamente, ponendo al governo italiano un vero problema di sostenibilità delle politiche che ha scelto. Tuttavia, nel valutare questo rischio, i mercati prendono in conto parametri diversi: le raccomandazioni della Commissione figurano nella lista, ma non sono la sola variabile né probabilmente la più importante. A questo proposito, va ricordato che il Portogallo, che pesa molto meno dell’Italia negli equilibri UE, è uscito da una procedura per deficit eccessivo grazie a una politica relativamente espansiva molto diversa da quella che preconizzava la Commissione, che – malgrado la minaccia di una multa – non è stata in grado di imporre la propria linea a quel paese.
La dittatura di Bruxelles, una costruzione ideologica al servizio del blocco borghese
L’idea che le politiche economiche, nel quadro dell’Unione europea, non sarebbero che la traduzione della volontà di Bruxelles, è diffusa e per nulla nuova: riguarda in particolare le “indispensabili riforme” del mercato del lavoro e della protezione sociale che hanno caratterizzato la dinamica italiana come quella francese. Riforme corrispondenti, questo è ovvio, alla direzione sperata e sostenuta dalle istituzioni europee, che tuttavia non hanno mai avuto i mezzi concreti per obbligare i governi ad adottarle.
Potrà spiacere ai sovranisti, ma la riforma neoliberista del capitalismo italiano e francese è un’espressione di sovranità. Anche la negazione del risultato referendario francese del 2005, quando il “NO” al progetto di costituzione europea venne tramutato nel “SI” del trattato di Lisbona, fu null’altro che una decisione del presidente Sarkozy. Scelte diverse sarebbero state possibili, se il potere francese dell’epoca avesse risposto ad altri interessi sociali e individuato un’altra strategia.
La retorica che connota le politiche come necessarie ed imposte dalle istituzioni comunitarie a paesi come la Francia o l’Italia, è emersa all’origine nel discorso dei partiti europeisti. Se ne possono trovare tracce nelle argomentazioni di Alain Juppé e Romano Prodi, più di venti anni fa; uno storytelling ripreso in seguito e sviluppato con forza e senza sosta dai governanti dei due paesi. In realtà, si è sempre trattato di attori nazionali che perseguivano sovranamente un progetto politico preciso: quello di rendere obsoleto l’asse destra/sinistra, produttore di alleanze sociali indebolite da importanti contraddizioni interne e considerate quindi come troppo fragili, formando un blocco sociale al di là di destra e sinistra che riunisse l’insieme delle classi medie e alte: quello che, con Bruno Amable, abbiamo definito blocco borghese [1].
Un progetto politico che ha trovato la sua espressione compiuta con la formazione del governo Monti in Italia e, qualche anno dopo, con l’elezione di Macron in Francia. In questo percorso, le regole europee (scritte, sia detto tra parentesi, con il contributo decisivo degli europeisti francesi e italiani che poi, nei loro paesi, le presentavano come vincoli esterni) hanno funzionato come punti d’appoggio e risorse legittimanti, ma non hanno mai avuto la forza di catene in grado di togliere ai governi nazionali ogni possibilità di movimento.
Va dunque sottolineato il carattere ingannevole del discorso sovranista: il problema non è, né è mai stato, di liberare dei popoli oppressi dal giogo dei trattati, ma di costruire alleanze sociali coerenti e a vocazione maggioritaria in grado di appoggiare una politica – in teoria assolutamente possibile – di contestazione radicale dei trattati. Sono i meccanismi di formazione del consenso a livello nazionale che, passando dalla frattura del blocco sociale di sinistra, hanno prodotto le politiche neoliberiste; ed è la formazione di una (eventuale) alleanza sociale alternativa al blocco borghese che renderà concreta la possibilità di una rottura con queste politiche.
L’asse Europa-nazione, un ostacolo alla formazione di un’alleanza sociale di sinistra
Da questo punto di vista, è fondamentale prendere coscienza di quanto il progetto del blocco borghese abbia inciso sulla strutturazione del sistema politico. In un movimento ancora e fortunatamente solo parziale in Francia, e invece ormai completato in Italia, lo storytelling dei partiti europeisti ha allargato la propria egemonia fino al campo avverso. Questo spiega come il tema principale che ha permesso a M5S e Lega d’intercettare il consenso dei gruppi sociali sacrificati dalle politiche del Partito democratico sia stato non l’opposizione al neoliberismo, ma la rivendicazione del sovranismo.
In Francia, la situazione è diversa a causa del peso politico della France insoumise, la cui posizione non è riduttibile allo schema Europa/nazione; ma il secondo turno delle ultime presidenziali, che ha visto affrontarsi Macron e Le Pen, indica che una prospettiva di tipo italiano, per quanto nefasta, non è da escludere. È chiaro comunque che il presidente francese e la capofila dell’estrema destra condividono l’obiettivo di una semplificazione del panorama politico nel quale resterebbero ad affrontarsi solo due schieramenti: quello europeista e quello sovranista.
In questo senso, l’ambizione di Macron di presentarsi come esponente di un progressismo opposto al nazionalismo [2], e quella di Le Pen d’incarnare il solo baluardo di una democrazia minacciata dalla costruzione europea [3], si rafforzano reciprocamente e sono riconducibili a un’identica logica: quella di un sistema politico che avrebbe nell’Europa e nella nazione, e non più in destra e sinistra, le sue polarità strutturanti.
Al di là dell’interesse suscitato dalla ribellione contro le indicazioni della Commissione, l’esperienza italiana deve dunque essere studiata attentamente perché fornisce un’immagine precisa di un conflitto politico interamente organizzato secondo questa nuova logica. Dal lato dell’europeismo, il blocco borghese ha un profilo sociale e delle fragilità ormai ben note. La volontà di aggregare il consenso dell’insieme delle classi medie e superiori corrisponde a un sostegno relativamente coerente all’integrazione europea e alle riforme neoliberiste. Tuttavia, proprio questo profilo conferisce all’alleanza sociale una vocazione minoritaria: il blocco borghese puo’ imporsi come dominante solo in virtù della difficoltà di riunire in un’unica alleanza l’insieme delle classi popolari.
Ma non è tutto: le politiche prodotte dal blocco borghese producono inevitabilmente un allargarsi della precarietà e dell’impoverimento destinati a colpire in maniera crescente le classi medie: la strategia neoliberista che è a fondamento dell’alleanza, è dunque destinata ad eroderne le basi sociali e quindi a provocarne la crisi. Questa analisi, fondata su sette anni di governi del blocco borghese in Italia (da Monti a Gentiloni, passando per Letta e Renzi), ma anche sulla traiettoria della presidenza Macron, ha riscontri empirici assai solidi.
I primi mesi di governo M5S/Lega permettono dal canto loro di fornire le prime risposte a domande che portano sull’altro polo del nuovo asse di differenziazione politica, vale a dire su un’alleanza costruita attorno alla difesa di una sovranità nazionale che si vorrebbe minacciata dalla costruzione europea. Qual è il profilo sociale di questa nuova alleanza? Quali classi ne fanno parte, e di quali attese sono portatrici? Quale strategia di mediazione è stata scelta dagli attori politici che cercano di consolidare questo nuovo blocco sociale?
Il compromesso sovranista in Italia: neoliberismo autoritario e compassionevole
L’analisi della base elettorale del M5S, fortemente radicata nel vecchio blocco di sinistra, e di quella della Lega, ereditata in gran parte dal blocco di destra e in particolare da Forza Italia, permette schematicamente di identificare due tipi di elettorato che sono centrali nella nuova alleanza [4]. Il primo è costitutito dai gruppi direttamente sacrificati dalle riforme neoliberiste: disoccupati, lavoratori precari e mal remunerati, una parte degli operai di quel che resta della grande industria, tutti gruppi che condividono il bisogno impellente di un sostegno ai rispettivi redditi.
Il secondo tipo di elettorato riunisce invece delle classi medie minacciate dal declassamento, ma che hanno creduto in passato e continuano a credere alle promesse di promozione sociale derivante dal gioco del libero mercato. La coerenza di una posizione riassumibile in “non funziona, ma ci credo ancora” passa per l’identificazione di un nemico esterno [5] che può assumere le forme più svariate (in fondo, poco importa la sua identità) e che impedisce alle virtù del neoliberismo di manifestarsi.
Queste classi hanno bisogno di essere rassicurate sul loro avvenire e, allo stesso tempo, sulla validità delle loro convinzioni ideologiche: il che spiega l’emergere, sulla scena italiana, dell’uomo forte Salvini, in grado di presentarsi simultaneamente come una protezione contro l’invasione migratoria, la dittatura di Bruxelles, la finanza cosmopolita o altro nemico immaginario, e come garante delle promesse neoliberiste.
Non è difficile immaginare quanto ridotto sia lo spazio di mediazione tra due elettorati tanto distanti, il che spiega la fragilità dell’intesa tra M5S e Lega, due partiti che non avevano vocazione a governare insieme e che si ritrovano obbligati a negoziare accordi dell’ultimo minuto sugli argomenti più svariati. È in ogni caso davvero troppo presto per sapere se il sostegno molto forte (attorno al 60% secondo i sondaggi) alla coalizione gialloverde corrisponde ad un nuovo blocco sociale, vale a dire a un’alleanza di fatto tra gruppi socio-economici diversi i cui interessi sono tutelati dall’azione di governo, o più semplicemente alla somma eterogenea e disaggregata di tante insoddisfazioni.
Tuttavia, i primi provvedimenti del governo, e in particolare il Def presentato in ottobre, permettono di connotare la strategia gialloverde come il tentativo di elaborare un compromesso sociale all’insegna di un neoliberismo autoritario e compassionevole. Autoritario, ovviamente, nella sua componente leghista, in particolare contro dei migranti privi di ogni possibile difesa; ma anche nella gestione del potere da parte di un M5S che minaccia sistematicamente di espulsione i suoi esponenti “indisciplinati”, cioè restii a piegarsi alla linea dettata dai vertici del movimento, anche quando questa entra in contraddizione con gli impegni elettorali. Compassionevole, o almeno presentandosi come tale, a causa del trasferimento di risorse a vantaggio delle classi più deboli. Trasferimento che porta il nome di reddito di cittadinanza, e rispetto al quale vanno precisati due punti importanti.
Il primo riguarda il volume irrisorio del finanziamento previsto dal Def: sette miliardi di euro in un anno (in campagna elettorale il M5S ne aveva promessi dieci di più), divisi per i cinque milioni di persone che secondo l’ISTAT vivono in condizioni di povertà assoluta, equivalgono a poco più di 100 euro al mese e a persona. Il secondo punto da sottolineare è la forma presa dal reddito di cittadinanza, ormai lontana anni luce dalla vecchia proposta grillina di un reddito incondizionato, e ricalcata – per esplicita ammissione di Di Maio [6] – sulla legge tedesca nota come Hartz IV. L’obbligo di accettare una delle prime tre offerte lavorative, nel quadro di un mercato del lavoro organizzato da un Jobs Act che M5S e Lega, qui ancora dimenticando le promesse di campagna, hanno scelto di non abrogare, cancellerà per i lavoratori ogni residuo potere negoziale, ed avrà dunque rapidamente (esattamente come accaduto in Germania) un effetto depressivo su dei salari già fortemente compressi dall’azione del blocco borghese.
Il timbro neoliberista e compassionevole dell’azione del governo si rivela anche in materia pensionistica. La legge Fornero (altra promessa tradita) non viene abrogata. I parametri per avere diritto ad una pensione completa restano quelli fissati all’epoca del governo Monti. La coalizione gialloverde permetterà semplicemente a chi avrà versato 38 anni di contributi di partire prima dei 67 anni di età, tuttavia con un taglio all’assegno pensionistico che puo’ raggiungere il 34% [7]. Con l’effetto paradossale, ma forse non tanto se si considera la logica del nuovo potere italiano, di obbligare chi fa lavori usuranti e mal pagati a proseguire fino a tarda età per raggiungere una pensione appena dignitosa: solo chi percepisce un salario elevato potrà permettersi il “lusso” di andare in pensione prima dei 67 anni, sempre ovviamente che la carriera lavorativa, e quindi il versamento dei contributi, non siano stati interrotti da periodi di disoccupazione.
Il finanziamento del reddito di cittadinanza e delle misure pensionistiche risponderà anch’esso alla logica neoliberista più ortodossa: mentre, in vista dell’introduzione di un meccanismo generalizzato di flat tax, la fiscalità delle imprese comincia ad essere ridotta, il governo prevede tagli alla spesa pubblica per sette miliardi. Inoltre, sempre che si voglia dare credito alla lettera inviata alla Commissione europea il 13 novembre, saranno messe in cantiere privatizzazioni destinate direttamente a riduzione del debito per la cifra mirabolante di 18 miliardi di euro nel corso del prossimo anno.
Dietro una rottura simulata, la continuità delle politiche neoliberiste
Riassumiamo. I governi europeisti del Partito democratico, sostenuti dal blocco borghese, avevano portato il deficit a un livello oscillante tra il 2% e il 3% del Pil; la coalizione Lega/M5S, in rivolta contro contro la dittatura dell’UE, ha previsto 2.4%. Quelli avevano introdotto il Jobs Act e una drastica riforma delle pensioni; questi lasciano immutato il primo e ammendano solo marginalmente la seconda. Quelli avevano tagliato la spesa pubblica e privatizzato; questi dicono di voler continuare sulla stessa strada. E per completezza: gli accordi criminali per bloccare i migranti in campi libici dove malnutrizione e maltrattamenti sono la regola, furono conclusi da Minniti, ministro degli interni del PD, Salvini non fa che rinnovare anche in questo ambito l’identica politica. Governo del cambiamento?
E tuttavia, i media vicini al nuovo potere come quelli di area PD, si uniscono in coro per diffondere l’immagine di una forte discontinuità nelle politiche pubbliche. Immagine fondata, a ben guardare, su un’unica considerazione: i gialloverdi sarebbero protagonisti di una ribellione contro Bruxelles senza precedenti tra i « grandi » paesi europei. Ma qual è il contenuto reale della ribellione? L’austerità continuerà in Italia: il deficit pubblico, pur superiore a quello previsto dal governo Gentiloni, corrisponderà ancora una volta a un avanzo primario.
Di più: lo scambio proposto dal governo italiano, quello tra una molto relativa flessibilità di bilancio e un pacchetto di necessarie riforme, è ormai un classico della dinamica europea, Italia e Francia ne sono già state protagoniste in passato. Il che permette di sottolineare un aspetto decisivo della questione: l’obiettivo politico della Commissione non è né è mai stata l’austerità, ma la riforma neoliberista. L’austerità derivante dai trattati non è che un mezzo di pressione sui paesi che si allontanano da un percorso destinato a cancellare le specificità dei capitalismi continentali.
La sola vera novità, in questo panorama, è l’opposizione frontale della Commissione a un governo che si dichiara totalmente disponibile al rispetto dell’agenda di Bruxelles per quel che riguarda rapporto salariale, protezione sociale, servizi pubblici.
L’obiettivo politico della Commissione: legittimare una rivoluzione apparente
La questione è dunque la seguente: perché la Commissione accende un conflitto contro un governo che non minaccia per nulla gli interessi fondamentali da lei protetti ?
Una prima risposta, largamente insoddisfacente, indica nei commissari europei dei burocrati che applicano i trattati alla lettera, senza troppo riflettere. Ma le cose stanno diversamente: i commissari, e in particolare Pierre Moscovici, incaricato degli affari economici e monetari, sono dei politici di lungo corso, e il vigore con il quale richiedono il rispetto dei trattati è ad intensità (molto) variabile in funzione dei paesi e delle congiunture.
La decisione di aprire un conflitto con il governo italiano è una scelta politica e come tale va considerata, chiedendosi dunque quali motivazioni ne siano la causa. È ben possibile che il conflitto finisca per chiudersi con un compromesso, ma ha fin d’ora prodotto degli effetti politici precisi: M5S e Lega appaiono, in gran parte proprio per via dello scontro con Bruxelles, come i veri ed unici avversari in Italia dell’europeismo neoliberista. L’opposizione della Commissione alla coalizione gialloverde contribuisce in questo modo al movimento di ristrutturazione del sistema politico di cui ho parlato.
I protagonisti di questo (pseudo) combattimento condividono l’identica ambizione di trasformazione neoliberista del capitalismo e puntano alle medesime “riforme” delle istituzioni sociali: ma legittimandosi reciprocamente come portatori di opzioni politiche alternative, si ergono a soli attori di uno scontro politico ridotto all’alternativa tra neoliberismo europeista e neoliberismo patriottico. Tra i suoi effetti, questa caricatura di dibattito ha quello di dividere ulteriormente una sinistra italiana già in pezzi: da un lato chi denuncia, allineandosi alle posizioni macroniste del PD, la presunta irresponsabilità dei nuovi governanti, dall’altro chi ne appoggia l’altrettanta presunta ribellione contro gli organismi comunitari, finendo paradossalmente per questa via a fornire sostegno (minimo) e legittimazione (preziosa) a un potere neoliberista e autoritario [8].
Le vicende italiane permettono dunque d’identificare il tratto falso e fuorviante dell’opposizione tra l’europeismo del blocco borghese e la coalizione sovranista dei suoi avversari: nell’impossibilità di consolidare la propria base sociale, il neoliberismo riesce a prolungare la propria egemonia tramite la produzione di rivoluzioni apparenti.
NOTE

  • [1] Un’analisi del blocco borghese è presentata in B.Amable, E.Guillaud, S.Palombarini: L’économie politique du néolibéralisme, Cepremap, 2012, e in B.Amable e S.Palombarini: L’illusion du bloc bourgeois, Raisons d’Agir, 2018
  • [2] Si legga A. Cargoet: « ‘Progressistes’ contre ‘nationalistes’: Macron et Salvini, meilleurs ennemis ? », Le Vent Se Lève, 2 septembre 2018
  • [3] Intervista a RMC, 27 settembre 2018
  • [4] Si legga sul tema il mio articolo: « En Italie, une fronde anti-européenne ? », Le Monde diplomatique, novembre 2018
  • [5] Ho trattato del tema in questo blog: « La percée de la Ligue et l’ennemi extérieur », nota del 26 luglio 2018
  • [6] Leggere « Il reddito di cittadinanza come Hartz IV », nextquotidiano.it, 9 octobre 2018
  • [7] G. Cremaschi: « Salvini non conosce né capisce la legge Fornero. “Quota 100” sarà una fregatura», contropiano.org, 13 novembre 2018
  • [8] Una lettura anche rapida del « decreto sicurezza » approvato ad inizio ottobre, permette di rendersi conto del livello di autoritarismo reazionario del nuovo governo

Questo articolo è stato pubblicato da Mediapart il 20 novembre 2018

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