Lorenza Carlassare: "Il nome non importa, la Carta dice che chi è povero va aiutato"

15 Novembre 2018 /

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Lorenza Carlassare
di Silvia Truzzi
Il dibattito sul cosiddetto “reddito di cittadinanza” si è concentrato, nella finezza dialogica che contraddistingue questa fase politica, sulle future truffe a opera dei professionisti del divano, prevalentemente residenti nel Sud Italia (a proposito di discriminazioni). Il tema era stato sollevato già all’indomani del risultato elettorale, visto il successo dei 5 Stelle nel meridione che, si diceva, sperava nell’assistenzialismo di Stato.
Poche parole invece sono state spese sul principio che informa la misura (di cui ancora non esiste un testo), ovvero il diritto di vivere dignitosamente. E di questo vogliamo parlare con Lorenza Carlassare, professore emerito di Diritto costituzionale a Padova: “Finalmente si comincia a parlare di misure di assistenza né parziali, né eccessivamente settoriali: un po’ in ritardo, invero, visto che sono passati settant’anni dall’entrata in vigore della Costituzione”.
Cominciamo da qui, professoressa.
C’è un articolo preciso di cui voglio parlare, ma prima m’importa sottolineare che tutta la Carta è attraversata dal principio di dignità della persona. Cosa volevano i Costituenti? Il loro obiettivo era creare una società umana, in cui tutti potessero vivere dignitosamente, concorrere alle decisioni comuni ed essere parte consapevole della società. C’è un rapporto molto stretto tra condizione dei cittadini e democrazia: povertà ed emarginazione non consentono alcuna partecipazione. I Costituenti volevano eliminare le pesanti fratture che dividono il corpo sociale, invece negli anni l’emarginazione è cresciuta, si sono saldate antiche e nuove povertà, una situazione che ormai riguarda 5 milioni di persone.

Arriviamo all’articolo 3.
Sì, soprattutto al suo secondo comma che va oltre l’eguaglianza della legge ma impone alla Repubblica di ‘rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese’. Il centro è qui, nelle parole ‘rimuovere’ e ‘di fatto’. È Teresa Mattei, in accordo con altre costituenti, a proporre l’inserimento della locuzione ‘di fatto’, essenziale per dar senso alla disposizione: di diritto siamo tutti uguali, di fatto no. Gli ostacoli ‘di fatto’ sono tanti, miseria e ignoranza innanzitutto. Le donne, che nella Commissione dei 75 erano solamente cinque e 21 in totale, hanno avuto un ruolo fondamentale: lottarono perché alle proclamazioni dei diritti si accompagnasse la garanzia per tutti di un minimo benessere economico senza il quale libertà e partecipazione sono parole vuote di senso.
E poi c’è l’articolo 38: “Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale”.
L’art. 38 non garantisce solo gli ‘inabili’ al lavoro , ma – al secondo comma – anche i cittadini involontariamente disoccupati, infortunati e invalidi: ‘I lavoratori hanno diritto che siano preveduti e assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria’. Nella terza sottocommissione se ne discusse il 10 e l’11 settembre 1946. Una proposta dell’onorevole Togni, Dc, ‘Ogni essere che […] si trovi nell’impossibilità di lavorare ha diritto di ottenere dalla collettività mezzi adeguati di assistenza’ venne subito riformulata dalla socialista Lina Merlin: ‘Lo Stato ha il compito di assicurare a tutti i cittadini il minimo necessario all’esistenza, in particolare dovrà provvedere all’esistenza di chi è disoccupato senza sua colpa e incapace di lavorare per età o invalidità’. Ed è importante ricordare che Teresa Noce, nel corso del dibattito, precisava che l’assistenza ‘va data anche a tutte le persone che non godono della previdenza’. Alla fine è nato l’articolo 38 che fornisce una copertura completa: nel primo comma a chi sia inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere, nel secondo al lavoratore involontariamente disoccupato, malato o infortunato o invalido. A tutti, insomma, purché abbiano voglia di lavorare e non possano farlo.
Su questo si è espressa anche la Corte?
Voglio citare due sentenze sul principio di solidarietà che sta alla radice di questi diritti, la 409 del 1989 e la 75 del 1992: ‘Il principio solidarista è posto dalla Costituzione tra i valori fondanti dell’ordinamento giuridico, tanto da essere solennemente riconosciuto e garantito insieme ai diritti fondamentali e inviolabili dell’uomo, dall’articolo 2 come base della convivenza sociale normativamente prefigurata dal costituente’. L’avverbio ‘normativamente’ sta a significare che non siamo di fronte a un’esortazione generica, ma che la struttura normativa del sistema deve essere ispirata a quel principio. Principio indissolubilmente legato al valore primario su cui si fonda la Costituzione intera: la persona e la sua dignità. ‘La dignità della persona è il valore costituzionale che permea di sé il diritto positivo’, dice la Corte in una sentenza del 2000 , dignità che è ‘valore di ogni essere umano’ ‘indipendentemente dalla condizione personale e sociale, dai pregi e dai difetti del soggetto, di guisa che a ciascuno è riconosciuto il diritto a che la sua dignità sia preservata’ ( sent. n.13/1994). Ma senza il necessario per vivere – che i Costituenti si preoccupavano di assicurare a tutti – quella dignità non è preservata. Il nome non conta: reddito di cittadinanza o come altro lo si voglia chiamare, deve essere chiaro che si tratta per lo Stato di un dovere costituzionale e, per chi sia nelle condizioni previste, di veri e propri diritti sanciti in Costituzione.
Questo articolo è stato pubblicato dal Fatto Quotidiano il 10 novembre 2018

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