di Silvia Napoli
Se fu nel fatidico ’77 che Marina the Cleaner Abramovic, turbò per un’oretta o poco più gli incauti bolognesi avventuratisi tra lo Scilla e Cariddi dei corpi nudi suoi e del compagno Ulay, è tuttavia Firenze che si assicura per la curatela di Arturo Galansino, la prima esposizione dedicata ad una artista donna, udite udite, nella storia di Palazzo Strozzi, nonché sicuramente la più esaustiva personale mai tentata per un artista di stampo performativo.
Sicuramente la più grande retrospettiva italiana di una artista che per forza di cose si sovrappone senza apparenti sbavature alla donna e alla persona da un cinquantennio almeno. Palazzo Strozzi ripercorre questi anni passati cosi in fretta da un millennio all’altro attraverso un centinaio di opere di varia natura:video, fotografie, dipinti, oggetti, installazioni e, naturalmente anche le ri-performances, ovvero la riproposizione di alcune celeberrime azioni della nostra, compreso quel famoso Imponderabilia di cui sopra, che non viene oggi interrotto dalla polizia, ma viene molto fotografato e poco agito da un pubblico forse meno audace di quello dei tempi.
Le performance vengono effettuate da una trentina in tutto di giovani opportunamente formati,che si turnano, nell’arco delle mattine e dei pomeriggi della settimana con una maggior concentrazione di appuntamenti nel fine settimana. In altri casi si dà al pubblico la possibilità comunque di misurarsi con piccole azioni o giochi di pazienza. Abramovic, si legge nelle didascalie in verità molto semplici e chiare che accompagnano il percorso, desidera sempre piu misurarsi con il tema della relazione e dell’interazione, chiamando in causa spettatori-testimoni.
Certo la Vita, che non è parola eccessiva o troppo larga per Abramovic è sfida ai limiti, gara di resistenza allenamento costante ad una sofferenza che in qualche modo viene esorcizzata quasi prevenendola, anticipandola, amplificandola in massicce dosi ultra omeopatiche. Una per tutte quando frappone fra sé e il grande amore, l’artista tedesco Ulay, una freccia acuminata puntata sul suo cuore e suscettibile di divenire arma mortale se solo il compagno cedesse per qualche ragione allo sforzo di tendere e trattenere l’arco che la governa.
La foto che li ritrae in quella situazione limite è carica di staticità ipnotica come a simboleggiare quel cos’è l’amor delle canzoni e la didascalia ci avverte che la performance era accompagnata dalla misurazione e registrazione in diretta delle accelerazioni cardiache dei due e da una vera e propria palpabile botta di adrenalina forse invece non del tutto percepibile in immagine. In seguito, come sappiamo dopo dodici intensi anni di osmosi di anime, questo incantesimo, non eviterà che il legame si interrompa o meglio sarebbe dire, si metamorfizzi in altro tipo di relazione e dopo una lungo percorso da pellegrini, che seguiamo nel video spartito a metà, Lei E Lui, si ricongiungono infine, da est e da ovest sulla muraglia cinese, scarmigliati e piangenti, ognuno col vessillo di se stesso e la nuova consapevolezza di essere due entità distinte e diverse.
Già da questo,che non è che uno degli episodi più romantici della saga Marina,si evince come il viaggio interiore incessante della nostra, somigli un poco ad un libro aperto alla pubblica consultazione, sempre più anche disponibile per note a margine, sottolineature, commentari singoli o collettivi.Un volume redatto in uno spartano bianco e nero da realismo poverista nella prima parte poi in una stampa patinata dai colori luminosi. Questo libro ci mostra una ragazza spigolosa e determinata dalla Serbia con furore verso il resto del mondo, incurante della sua avvenenza cosi antica e contemporanea dapprincipio, eppoi in seguito,una icona di stile senza tempo che rende elegante qualsiasi divisa da lavoro o militare o da viaggio che sia.
Una donna anche ieratica, quando decide di sigillarsi in drappeggi da regina, per ostendersi ed estenuarsi allo sguardo scrutatore del pubblico. O non è il contrario, piuttosto, ci chiediamo: forse in realtà è lei a fissare per sette ore consecutive gli astanti del MOMA, certo incapaci di prodursi in altrettanta penitenza. Marina Abramovic fa della trasformazione il senso profondo della sua arte e della sua stessa esistenza, ma mentre la seguiamo solcare con incedere marziale tutta la nostra epopea pop, della quale a dispetto di tutto è parte integrante, cristalli new age compresi, non possiamo dirla una trasformista come potremmo dire di Lady Gaga per esempio.
Raramente infatti capita di imbattersi in personalità più definite della sua, quasi scolpita in quelle rocce campeggianti in tante delle sue azioni outside Abramovic è in buona sostanza un grande classico di se stessa ed è anche un monumento vivente all’ottimismo della volontà, persino quando rivisita i suoi luoghi più oscuri, quelli dell’io diviso, balcanizzato si potrebbe dire tra l’identità arty liberata e giramondo del post ’68 e la controversa eredità familiare onusta di gloria partigiana, ma anche di rigidità, paranoia, proibizione, violenza quasi atavica che sfocia poi in quel Balkan Baroque,ovvero la guerra europea recente più cannibalica di sempre, sublimata in una delle più drammatiche installazioni-performance di Abramovic che le vale il Leone d’oro alla Biennale di Venezia del 1998.
Qui la ragazza che voleva fare pulizia nei cassetti dell’inconscio e negli estetismi dell’arte figurativa, diventa una consapevole madre Coraggio intenta a pulire e lavare una montagna di ossa putrescenti. Davvero non servono tante parole in questa toccante sezione della mostra, dove si è avvolti per tutto il tempo dalle note dell’inno nazionale serbo, da canzoni del partito comunista, persino da scatti privati di una infanzia a pieno titolo titoista dato lo status quasi di eroi nazionali dei suoi ingombranti genitori, performatizzati con una pistola in mano da teatro della Crudeltà. Un altro modo possibile di leggere la parabola artistica di Marina è anche la fuga identitaria da tutto questo, che la porta a dire di non avere casa fissa, di considerarsi cittadina del mondo, anche se sappiamo essere naturalizzata americana e per di più dopo un paio di brevi matrimoni, essere ora innamorata di un americano, assolutamente non artista, per non incorrere in rischi del cuore.
Rischi certo più letali delle lame di coltello, delle candele accese, dei rasoi e pettini di ferro, di tutti gli strumenti di tortura di uso quotidiani che fanno bella mostra di sé nel percorso espositivo, e che nel corso degli anni sono stati esperiti metodicamente dalla nostra, spogliati di ogni erotismo e più similarmente adoperati con la veemenza dell’autolesionista, con l’ansia sperimentale dell’immunologo che studia i vaccini dell’anima, con la sacralità dello sciamano, ma anche con lo spirito del partigiano che va con ogni arma disponibile a combattere il pregiudizio.
Alla fine della intensa mattinata spesa nel Palazzo, non sappiamo se ci sia più cara la eterna ragazza che risolve il suo Edipo diventando su un cavallo bianco suo padre il Comandante Vojo e portandone la bandiera per onorare la sua morte, la donna che una tantum si lamenta delle stanze d’albergo, degli uomini sbagliati, dei suoi stessi attributi fisici, proprio lei, dopo tanto esibirli, dei cocktail parties gestiti sobriamente a bicchieri d’acqua, della infinita girandola di vernissage o quella sfrontata a inizio carriera che se ne frega del bello artistico e persino del senso politico del suo lavoro, se per politico si intende la contingenza. O la donna prevedibilmente oggetto di violenza, quando intervenuta alla inaugurazione, è uscita miracolosamente illesa da un assalto imponderabile da parte di un sedicente artista balcanico a colpi di quadro in testa.
Sì, the artist is present, come recita un suo recente docu, presente a se stessa, soprattutto e ad una audience oggi molto molto ampia che assalta anche i gadgets in vendita nello shop. Chi scrive si sta chiedendo tuttavia, a fronte di tanta meritata celebrazione, come sia viceversa possibile che gli stessi maestri dichiarati, responsabili della folgorazione di Abramovic sulla via della sua arte fisica, insieme alle loro correnti concettuali siano oggi abbastanza assenti dai nostri spazi espositivi e che soprattutto quella geniale e irregolare figura di artista, davvero anticipatoria che fu Gina Pane, stia nel solito sito superaffollato della nostra Cultura, specialmente femminile: il Dimenticatoio.