Revisionismo culturale: lo scandalo è che non fa più scandalo

8 Ottobre 2018 /

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di Loris Campetti
Se fosse vero che historia magistra vitae, come sosteneva Cicerone in De oratore, dovremmo chiederci cosa è diventata la nostra vita. Quando i giovani non sanno quel che sapevano i loro genitori, non possono sapere chi sono essi stessi e, alla fine, a venir meno è la memoria collettiva. Ma forse è proprio questa la finalità più o meno consapevole di chi vuol cancellare il tema di storia dalle prove dell’esame di maturità. Siccome sono pochi gli studenti che scelgono di cimentarsi su questo tema, tanto vale eliminarlo.
Vorrete mica rieducare i giovani studenti, cittadini ormai maturi per le urne, annoiandoli con le oche capitoline, Giulio Cesare, il Rinascimento e il risorgimento, le guerre mondiali e il fascismo? Siamo o non siamo in una stagione di autocrazia elettiva, per approfittare della lucida espressione di Luigi Ferrajoli? Fatti foste a viver come bruti e non per seguir virtute e canoscenza, si potrebbe dire rovesciando il monito di Ulisse di fronte alle Colonne d’Ercole. Pensate che vantaggio sarebbe cancellare la storia: i giovani applaudirebbero la virile dichiarazione di Salvini “Me me frego”, senza sapere che prima del condottiero leghista un altro condottiero, cioè duce, l’aveva urlata.
O forse non a Mussolini pensava Salvini, ma addirittura al vate D’Annunzio, antesignano del menefreghismo e in fondo recuperabile dalla discarica della storia (ma per questo non serve comunque la storia, basta la poesia che è materia per ora salvata nella prova di maturità). I primi frutti già si vedono: dalla Puglia arriva la notizia che un imprenditore romagnolo non può parlare di Auschwitz a scuola, perché a scuola non si fa politica. Parola del collegio dei professori.
Il revisionismo scolastico era già iniziato con l’attacco alla geografia. Era il 2010, la Lega era ancora Nord, Berlusconi ancora Cavaliere e a educare gli studenti ci pensava Maria Stella Gelmini. Nell’epoca della globalizzazione, a che serve conoscere la capitale dell’Islanda o del Congo? Basta che a conoscerle siano le élite economiche o al massimo, ma proprio al massimo, quelle politiche. Perché un giovane maturando deve sapere dov’è l’Eritrea, o peggio ancora l’Abissinia, terra piene di faccette nere di italica memoria, o la Somalia? Basta che sappia che noi siamo la diga nel Mediterraneo e con i nostri prodi alleati, le tribù di torturatori libici e il nuovo sultano dell’Anatolia, fermiamo l’invasore sull’altra sponda, al massimo sul nostro bagnasciuga.
Lo scandalo sta nel fatto che questo revisionismo culturale non faccia più scandalo. Toccherà a questo governo o al prossimo abolire la matematica all’esame del liceo scientifico, un’alchimia troppo difficile per il popolo e materia per competenti calcolatori di spread e pareggi di bilancio, e il greco alla maturità classica, lingua di un paese che porta pure sfiga? Fra loro, i nuovi governanti, si chiamano cittadini ma per il popolo di cui si riempiono la bocca prefigurano una riduzione al rango di consumatori – con giudizio e con etica naturalmente, parola di Di Maio – e, in prospettiva, un ritorno allo stato di plebe. Ha perso la parola, e il cervello, chi dovrebbe rispondere impugnando Gramsci e ripetere: «Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza». Ma quello era l’Ordine nuovo, il nuovo ordine può benissimo fare a meno della storia. E dello studio.

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