di Carla Corsetti
Molti italiani non sanno nemmeno dov’è Dublino ma sanno che in quella città è stato firmato un trattato cui attribuiscono ogni responsabilità per “l’invasione dei migranti”. Del resto ad una popolazione che crede all’oroscopo, che crede alle stimmate di padre Pio, che crede ai miracoli e alle madonne che piangono, e anche se è non credente, mostra pur sempre di essere forgiata in modo da neutralizzare la propria capacità critica, puoi anche fargli credere che stiamo subendo una pericolosa invasione.
È inutile stare a spiegare che i dati e le statistiche dicono il contrario, ormai gli italiani sono incartati nella involuzione di una malvagia credenza collettiva che potrà trovare un freno solo nel momento in cui l’istigazione all’odio razziale che ne scaturisce, incontrerà il contenimento delle sanzioni penali. Fino ad allora, l’odio razziale continuerà ad essere uno sport nazionale.
Tornando a Dublino, capitale dell’Irlanda, nel 1990, fu firmata una Convenzione tra 12 Paesi e prevedeva regole comuni per “la determinazione dello Stato competente per l’esame di una domanda di asilo presentata in uno degli Stati membri delle Comunità europee”. Con quella Convenzione, che tuttavia entrò in vigore nel 1997, si stabilivano regole e parametri in base ai quali, una volta accertato lo status di rifugiato ai sensi della Convenzione di Ginevra del 1951, la domanda di asilo poteva essere esaminata anche da uno Stato diverso da quello dove era stata richiesta.
La regola generale prevedeva che lo Stato nel quale si aveva l’ingresso, regolare o meno, del richiedente asilo, nell’ambito del territorio dell’Unione, era quello responsabile dell’esame della domanda, indipendentemente da dove la stessa fosse stata presentata. Motivi umanitari, fattori culturali e particolari condizioni familiari avrebbero potuto consentire l’esame della domanda anche in uno Stato diverso da quello nel quale si aveva ingresso.
La Convenzione di Dublino del 1990 era in perfetta aderenza all’articolo 10 della nostra Costituzione, posto che la concessione dell’asilo in caso di impedimento dell’esercizio delle libertà democratiche, includendo la persecuzione per discriminazione sessuale o razziale, è uno dei nostri Principi Fondamentali.
Nel 2003 venne adottato il Regolamento di Dublino II che riconfermò i criteri generali circa l’esame delle domande di asilo, introdusse ulteriori specifiche sulla gerarchia dei criteri di esame dei requisiti, sulla cooperazione amministrativa tra gli Stati e, al fine di agevolare l’identificazione del richiedente asilo, fu introdotta la schedatura attraverso le impronte digitali con l’estensione del sistema Eurodac, il database europeo delle impronte digitali.
Il Regolamento di Dublino II fu firmato dall’Italia quando Il presidente del Consiglio era Silvio Berlusconi e i suoi ministri erano della Lega Nord. Le impronte digitali, nell’immaginario collettivo, sono generalmente associate alla identificazione del criminale, e quindi averle introdotte all’interno di un sistema di identificazione di migranti richiedenti asilo, per la destra leghista costituiva il raggiungimento di un traguardo importante nella ideazione complessiva della sottocultura volta alla criminalizzazione dello straniero.
Con il Regolamento di Dublino III, sottoscritto durante la presidenza del Consiglio di Enrico Letta, venne introdotto il criterio della obbligatorietà per lo Stato ove avveniva il primo ingresso, di esaminare la domanda di asilo del rifugiato. L’Italia, per posizione geografica, è un naturale primo approdo, e l’atavica incapacità di gestire l’ordinario, ha mandato tutti in fibrillazione rispetto alla necessità di gestire un flusso migratorio più consistente, interpretato in modo demenziale da molti come “tutta l’Africa in Italia”.
Tuttavia in Italia non arrivano solo rifugiati, arrivano anche stranieri che non fanno domanda di protezione internazionale. Il rifugiato è colui che «temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui ha la cittadinanza, e non può o non vuole, a causa di tale timore, avvalersi della protezione di tale Paese». Il migrante è invece colui che decide di lasciare la propria terra d’origine alla ricerca di condizioni di vita migliori, proprio come fanno circa 250mila italiani ogni anno.
Lo Stato italiano ha istituito i Cie (Centri di identificazione) dove vengono rinchiusi i migranti che non possono fare richiesta di protezione internazionale, e i Cara (Centri di accoglienza per richiedenti asilo) dove gli ospiti sono in condizione di semidetenzione, potendo uscire di giorno, ma rimanendo sotto monitoraggio fino a quando le loro domande non verranno accolte, e quando invece vengono respinte non hanno altra scelta che restare nella irregolarità.
Il nostro ordinamento concepiva soltanto la detenzione penale a seguito della commissione di reati, ed ora invece è stata introdotta la detenzione amministrativa, che è una autentica aberrazione giudica. Le forze governative soffiano sul fuoco razzista, ben consapevoli che, nella impotenza della propria inadeguatezza, distolgono l’attenzione dalla incapacità politica di elaborare una soluzione strutturale che pacifichi la nazione nella solidarietà.
Alle opposizioni, che non si rassegnano alla Weimar italiota, resta il difficile compito di smarcarsi dalla mistificazione che l’ha etichettata come “élite distante dai bisogni concreti”, e di imporsi come forza politica in grado di riconoscere, in un afflato internazionalista, la riorganizzazione della società in senso economico e sociale, restando umani.
Carla Corsetti, è segretario nazionale di Democrazia atea e fa parte del coordinamento nazionale di Potere al popolo.
Questo articolo è stato pubblicato da Left.it il 28 giugno 2018