di Mariangela Mianiti
Se scendi da un’auto e, senza dire una parola, da settanta metri di distanza spari a tre uomini e ne colpisci uno alla testa, vuol dire che non volevi spaventare, ma uccidere. Siccome la vittima, Sacko Soumayla, 29 anni, veniva dal Mali, in tempi di salviniana muscolarità anti immigrati si è dato subito a questo omicidio uno sfondo razzista. Leggendo la biografia della vittima, viene il dubbio che le ragioni dell’assalto non siano dovute solo al colore della pelle o a ciò che Soumayla stava facendo, e cioè portare via qualche lamiera per costruire una baracca da una ex fornace chiusa da dieci anni e sotto sequestro perché vi erano state sversate 135mila tonnellate di rifiuti tossici.
Per cercare di capire quali motivi portino un italiano a uccidere a sangue freddo un lavoratore africano bisogna guardare a chi era Sacko Soumayla, che cosa faceva, dove e per chi. Siamo nella piana di Gioia Tauro, in Calabria, terra fertile di agrumi, kiwi, ulivi. Sacko Soumayla aveva un regolare permesso di soggiorno, lavorava come bracciante per 4,50 euro l’ora, era un sindacalista iscritto all’USB e lottava contro lo sfruttamento della mano d’opera immigrata.
Circa un mese fa, il 3 maggio, la testata online osservatoriodiritti.it ha pubblicato un’inchiesta intitolata Migranti: nella Piana di Gioia Tauro vivono i «dannati della terra» basata su un rapporto di Medu (Medici per i diritti umani). Lì c’è tutto quello che serve per capire che un lavoratore immigrato che si ribella può dare molto fastidio.
Dà fastidio a chi, in questo caso italiani, vuole pagare il meno possibile la mano d’opera per lucrare di più. Dà fastidio a chi conviene mantenere i lavoratori in condizioni di precarietà, come l’attesa di un permesso di soggiorno, che rende più facile il gioco al ribasso e, infatti, 7 braccianti su 10 sono sfruttati e non hanno un contratto.
Se il contratto arriva, non è mai veritiero perché, per esempio, figura che hai lavorato 30 giorni invece dei reali 3 mesi, 2 giorni anziché i 16 effettivi. Non contenti di pagare poco e in nero, di ricorrere al reclutamento secondo l’odioso sistema del caporalato, questi pseudo imprenditori hanno tutto l’interesse a tenere i lavoratori in condizioni di vita miserevoli, come braccia da usare e buttare. Quando, come dicono gli operatori di Medu, «Oltre tremila persone vivono fra cumuli di immondizia, bagni maleodoranti, dormono su materassi a terra o vecchie reti, circondati dall’odore nauseabondo di plastica e rifiuti bruciati per scaldarsi», il loro primo pensiero è non soccombere. Chi si ribella a tutto ciò dà fastidio.
Otto anni fa, a Rosarno i braccianti protestarono contro queste forme di schiavismo, ma nulla è cambiato, come se lo Stato guardasse da un’altra parte.
L’uccisione di Soumayla ha sicuramente uno sfondo razzista, ma emerge da un substrato di avidità, egoismo, disprezzo per la vita e stupidità, sì, stupidità perché lavoratori trattati e pagati in modo civile portano sviluppo e ricchezza alla zona in cui vivono. Evidentemente nella piana di Gioia Tauro gli interessi sono altri.
Come ha detto Antonello Mangano, curatore del sito d’inchiesta terrelibere.org, «Rosarno è uno dei luoghi centrali dell’economia globale. La mano d’opera arriva dall’Africa occidentale, i contributi alle coltivazioni da Bruxelles e, infine, le arance sono esportate in mezzo mondo: Romania, Russia, Repubblica Ceca, Germania, Polonia, Emirati Arabi, Stati Uniti. Braccia migranti, multinazionali del succo, grandi commercianti e supermercati sono gli attori del gioco». Quindi, per favore, non chiamatelo solo razzismo.
Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano Il manifesto il 5 maggio 2018