Il prequel della grande guerra Tim-Telecom

10 Aprile 2018 /

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di Vincenzo Vita
La vicenda Sky-Mediaset, con il prevedibile rialzo in Borsa del titolo delle aziende di Berlusconi cui le complicità politiche della televisione guardano sempre con favore – a prescindere -, ha un prequel fondamentale. Vale a dire la «grande guerra» attorno a Tim-Telecom.
Infatti, il ritorno di fiamma tra il Biscione e il mai amato Rupert Murdoch ha il sapore di una contromossa difensiva, dopo la rottura con Vivendi. La società di Bolloré -con i suoi 24% in Tim e 28,8% in Mediaset- sarebbe stata per l’ex Cavaliere la mossa perfetta: un accordo sulla pay-tv (Canal+ è del finanziere bretone) e un atterraggio morbido sul ghiotto terreno delle telecomunicazioni.
Insomma, sembrava che gli effetti a distanza del «patto del nazareno» funzionassero ancora. Di fronte al rischio di uscirne con le pive nel sacco a causa dell’asprezza del conflitto con i francesi, a loro volta in disgrazia nella scalata all’ex monopolista telefonico, la famiglia Berlusconi ha cambiato la tattica e ridimensionato la strategia.
Un ritorno a casa, nel business dei contenuti televisivi. È vero che nel grandangolo dell’operazione di Sky si vede pure la sagoma di Open Fiber (Enel e Cassa depositi e prestiti), il concorrente diretto nella banda larga di Tim. Sembra un’apertura di orizzonti, ma chissà che accadrà davvero. L’integrazione cross-mediale è ancora da verificare, in un’Italia assuefatta ai riti del «duopolio» Rai-Mediaset.

Torniamo alla questione Tim. È noto che l’ex azienda di Stato sia stata privatizzata male dall’allora centrosinistra, divenendo poi una vera e propria riserva di caccia: dai “capitani coraggiosi”, agli spagnoli, ai transalpini. Un patrimonio spolpato e caricato di debiti. Ora è un luogo comune parlare degli errori commessi. A suo tempo, invece, l’opinione prevalente ( nel governo e non solo) era allineata al liberismo imperante. Tralasciamo le tappe della crisi: un gioco al massacro di cui rischiano di pagare il conto lavoratori e piccoli azionisti.
Veniamo all’attualità. Adesso, in competizione con Bolloré, arrivano gli americani. Ci riferiamo al fondo di investimenti Elliott, noto ai tifosi del Milan come mallevadore dell’acquirente cinese. Il duello avrà nelle assemblee del 24 aprile e del 4 maggio l’epifania. La saga, però, non è affatto conclusa e non si può neppure escludere che l’astuzia di Bolloré si risolva in una clamorosa uscita di scena a favore della maggiore impresa francese del settore, Orange. E gli americani accuserebbero il colpo. L’amministratore delegato Amos Genish deve aver fiutato l’aria e ha rilanciato l’idea di scorporare la rete dai servizi. È un’antica linea, che nel 1997 – agli albori della privatizzazione- era la possibile alternativa alla corsa verso il mercato, tra l’altro rivelatosi asfittico com’è il capitalismo italiano. Adesso è una strizzata d’occhio al ministro uscente Calenda, nonché alle parti politiche nuove e vecchie, queste ultime con il senso di vergogna per la svendita di un tesoro. Anzi. Allora si respirava un sapore di stato sociale, ora di neo-sovranismo. Al fondo, c’è l’urgenza di fare cassa per rimediare ad un debito che è una volta e mezzo del fatturato.
È utile chiarire la direzione di marcia: la rete sarebbe davvero unica e aperta senza discriminazioni? Ci entrerebbe Open Fiber, insieme a chi altro? I piccoli azionisti? Garanzie per l’occupazione? La rete, per di più, nel frattempo è diventata un’altra cosa, nell’era della generazione del 5G e degli Over The Top. È virtuale. Sta in cielo e non in terra.
Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano Il manifesto il 4 aprile 2018

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