Europa, mercato e sovranità popolare

10 Aprile 2018 /

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di Alessandro Somma
Che l’epoca attuale sia caratterizzata dal trionfo della logica del profitto è oramai un dato di fatto, le cui conseguenze sono state indagate dai punti di vista più disparati. Un recente volume – Lo impone il mercato. Come i nostri governanti hanno stravolto i principi costituzionali di Daniele Perotti (Imprimatur) – ha ripercorso quelle che interessano il piano dei principi fondamentali enunciati dalla Costituzione italiana nei suoi primi articoli[1]. Il risultato è un atto di accusa duro e articolato contro l’Europa unita, ritenuta il catalizzatore di quanto possiamo oramai definire in termini di dittatura del mercato. Al lettore si offre così un contributo riconducibile a un genere letterario che sta finalmente prendendo piede: quello relativo all’incompatibilità conclamata, sebbene troppo a lungo occultata, tra Costituzione italiana e Trattati europei.
Costituzione vs trattati europei
Da un simile punto di vista sono centrali le pagine in cui si sottolinea il ruolo che per la Carta fondamentale assume il lavoro: il perno del patto di cittadinanza per cui il diritto ai beni e servizi erogati dallo Stato sociale costituisce il corrispettivo del dovere di concorrere al progresso materiale e spirituale della società (art. 4). Il tutto collegato a un vero e proprio obbligo dei pubblici poteri di creare le condizioni affinché il diritto al lavoro sia effettivo, e soprattutto sia produttivo di emancipazione e dignità per sé e per la propria famiglia.
Perotti sottolinea opportunamente che questo equivale ad attribuire allo Stato il compito di promuovere attivamente la piena e buona occupazione, rigettando l’idea ora dominante per cui si riconosce al solo mercato “una funzione generatrice di lavoro”.

Tutto il contrario, si aggiunge, di quanto avvenuto con le ultime riforme del lavoro, che lo hanno “voucherizzato”: espressione felice perché restituisce l’immagine di una relazione lavorativa degradata a una relazione di mercato qualsiasi, ovvero al nudo e crudo scambio di denaro contro prestazione. Di qui la conclusione, ineccepibile, che la concezione del lavoro alimentata dai Trattati europei si pone in netto contrasto con la Costituzione.
Il lavoro compare anche nell’enunciazione del principio di uguaglianza, che non a caso la Costituzione fa seguire all’individuazione di ulteriori obblighi dei pubblici poteri. Questi ultimi devono promuovere la parità effettiva oltre quella meramente formale: devono cioè rimuovere gli ostacoli allo sviluppo della persona e all’effettiva partecipazione dei lavoratori alla vita politica, economica e sociale del Paese (art. 3). Anche qui si tratta però di obblighi rimasti sulla carta, o comunque trascurati in misura crescente con l’intensificarsi del processo di unificazione europea. Tanto che Perotti descrive l’Italia come il Paese che “ha rinunciato a pezzi importanti della sua sovranità non per meglio realizzare principi della propria Costituzione, ma per muoversi in una direzione opposta… sottoponendosi di fatto a politiche economiche e finanziarie dettate da organismi sovranazionali privi di alcuna legittimazione democratica”.
Non era così in passato, quando prevaleva la cultura politica ed economica keynesiana, indicata come un punto di riferimento per i Costituenti. Quella cultura aveva alimentato una spirale virtuosa: quella originata dal potere contrattuale dei lavoratori, produttiva di una buona crescita dei livelli salariali, a sua volta motore per l’incremento dei consumi, e quindi dell’occupazione e della forza dei lavoratori. E proprio per questo il compromesso keynesiano, in ultima analisi uno strumento di redistribuzione della ricchezza dall’alto verso il basso, è stato rimpiazzato dal suo opposto attraverso le cosiddette riforme strutturali: le riforme incentivate dal livello europeo, tutte incentrate sul controllo della stabilità dei prezzi, e dunque su forti limitazioni alla spesa indispensabile ad alimentare il compromesso keynesiano.
Maastricht e la cessione di sovranità
A ben vedere la costruzione europea non nasce con questa impronta. Fin dall’inizio i Trattati fanno riferimento alla stabilità dei prezzi come finalità dell’azione politica, ma indicano nel contempo la piena occupazione come orizzonte. Si tratta evidentemente di obiettivi sovente incompatibili, e proprio per questo sino agli anni Settanta vi era un consenso diffuso tra i Paesi europei circa la necessità di individuare quello destinato a prevalere. Prima si sarebbe scelto se privilegiare la piena occupazione o il controllo dell’inflazione nel definire politiche di bilancio comuni, e solo in un secondo momento si sarebbero individuate le politiche monetarie coerenti con quella scelta.
Come si sa, le cose sono andate diversamente. Jacques Delors, Presidente della Commissione europea dalla metà degli anni Ottanta alla metà degli anni Novanta, impone prima di realizzare la completa liberalizzazione dei capitali, con ciò decretando l’insostenibilità del compromesso keynesiano (Atto unico europeo): se i capitali circolano liberamente, gli Stati devono attirarli abbattendo i salari e la pressione fiscale. Si delinea poi il percorso verso la moneta unica, stabilendo che essa presuppone controlli stringenti sul debito e il deficit pubblico (Trattato di Maastricht), sino al raggiungimento del pareggio o addirittura del surplus di bilancio (Patto di stabilità e crescita).
Si è insomma edificata una politica monetaria neoliberale, e di riflesso imposto agli Stati una politica di bilancio inevitabilmente destinata ad alimentare lo smantellamento del welfare, le privatizzazioni e le liberalizzazioni, oltre che la precarizzazione e lo svilimento del lavoro. Il tutto realizzato attraverso un meccanismo a cui Perotti fa solo un breve riferimento, che occorre invece esplicitare per metterne in luce la portata eversiva. Si è infatti dato vita a un vero e proprio mercato delle riforme, ottenute come contropartita dell’assistenza finanziaria: è successo con l’allargamento della costruzione europea a sud e ad est, poi con la ristrutturazione dei debiti sovrani esplosi dopo la recente crisi economica e finanziaria, e infine con l’utilizzo dei fondi strutturali. Anche questi ultimi, inizialmente concepiti per redistribuire risorse dalle aree più floride a quelle più svantaggiate, sono divenuti l’occasione per imporre quanto le istituzioni europee chiamano “una sana governance economica”[2].
Trae dunque ulteriori conferme la conclusione di Perotti per cui le rinunce alla sovranità a favore della costruzione europea hanno condotto a tradire lo spirito della Carta fondamentale. Una conclusione che l’autore ribadisce a commento della norma costituzionale che acconsente alle limitazioni di sovranità solo in condizioni di parità con gli altri Stati, e solo per alimentare la pace e la giustizia internazionale (art. 11). Il Trattato di Maastricht è in radicale contrasto con questa previsione, violata “sotto tutti e tre i profili evidenziati dal nostro dettato costituzionale: la condizione di parità con gli altri Stati, il fine della pace e giustizia fra le nazioni, le limitazioni di sovranità che vengono invece trasformate in cessioni di sovranità”.
A ben vedere la Costituzione italiana contiene un’altra disposizione destinata a legittimare le cessioni di sovranità, dal momento che quella appena ricordata era stata concepita per favorire l’adesione alle Nazioni Unite: la disposizione aggiunta con la riforma costituzionale del 2001, che ha introdotto la precisazione per cui “la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto… dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario” (art. 117). Ma non è questo il punto: se davvero l’appartenenza all’Europa unita ha fatto scempio della Carta fondamentale, allora la soluzione non può essere quella abbozzata da Perotti: “un’inversione di tenenza” da ottenere con “la stessa tensione ideale, la stessa consapevolezza, la stessa assunzione di responsabilità che animò le donne e gli uomini della Resistenza”.
Perotti osserva correttamente che la costruzione europea mortifica la sovranità popolare, e allora da qui dobbiamo partire per riflettere sul che fare.
Sovranità statale vs sovranità popolare
Per i costituenti la sovranità popolare era una formula da non prendere troppo sul serio. Era diffuso il convincimento che la sua affermazione avesse senso solo pensando ai tempi in cui la volontà del popolo si contrapponeva a quella del principe, espressione di un’autorità assoluta e illimitata. Il principe era stato però rimpiazzato dalla Repubblica, sicché non vi era più bisogno di contrastarne l’azione o comunque di individuare forme di sovranità concorrenti. I costituenti pensavano così che di sovranità popolare si potesse parlare unicamente in senso metaforico, che in verità fossero le istituzioni ad essere sovrane: in particolare il parlamento, entro cui il popolo viene rappresentato attraverso il meccanismo elettorale. E le istituzioni sicuramente esercitavano la loro sovranità nel nome del popolo, ma altrettanto sicuramente senza che quest’ultimo divenisse l’effettivo titolare della sovranità[3].
Ben presto questa impostazione ha ceduto il passo a un diverso modo di intendere la sovranità popolare, reso possibile dal superamento della visione per cui lo Stato assorbe in sé i suoi elementi costitutivi (popolo, territorio e sovranità). Si è infatti distinto tra lo Stato-società, ovvero “l’intera comunità politicamente organizzata nella sua unità dialettica di governanti e governati”, e lo Stato-governo, cioè “l’apparato che all’interno del gruppo politico esercita la potestà d’imperio”. E si è precisato che lo Stato-governo costituisce un’entità al servizio dello Stato-società, che dunque la sovranità risiede nel popolo, e non solo dal punto di vista simbolico: “il popolo resta titolare della potestà di governo, costituente e costituita, dell’una e dell’altra conservando altresì l’esercizio”, mentre lo Stato semplicemente “sostituisce il popolo nel solo esercizio di una parte di tale potestà”[4].
Spetta insomma al popolo formulare indirizzi politici, e alle istituzioni statali attuarli attraverso atti autoritativi: questo qualifica la nascita dello Stato moderno, che dunque non può essere descritto semplicemente come la costruzione nella quale la sovranità passa da un persona fisica, il principe, a una persona giuridica, lo Stato appunto.
Governanti vs governati
Inizialmente il passaggio dalla sovranità del principe alla sovranità del popolo non si è accompagnato alla consapevolezza che esso comportava la frammentazione di quanto era prima percepito come una vicenda unitaria. Governanti e governati venivano rappresentanti come un complesso ordinato, in linea con l’idea di sovranità popolare così come era stata concepita in origine: quando Rousseau la considerava l’espressione della volontà generale, ovvero di qualcosa che integra un’entità autonoma rispetto alla mera sommatoria delle sue parti.
Lo schema proposto da Rousseau era coerente con la sua visione della democrazia come partecipazione solo diretta, così come con l’idea per cui essa si esauriva nella possibilità di approvare o respingere le proposte formulate dal potere esecutivo. Il tutto senza discussione, quindi solo attraverso la mera manifestazione di assenso o dissenso, in modo tale da non lasciare spazio alcuno al rischio di manipolazione retorica e tutelare così la scelta individuale libera e meditata[5]. Se peraltro la democrazia si esprime anche attraverso la rappresentanza, emerge inevitabilmente un’immagine del popolo non costringibile entro gli schemi prefigurati da Rousseau.
Altrimenti detto, il popolo non è più descrivibile come un’entità nella quale si fondono governanti e governati: in esso i primi e i secondi sono contrapposti, o quantomeno possono esserlo. Neppure si può rappresentare il popolo come sulla scia di Rousseau hanno fatto i rivoluzionari francesi: una universalità di cittadini. È al contrario una comunità marcata da divisioni e contrasti, che possono far capo alle più disparate formazioni intermedie tra l’individuo e lo Stato, tutte chiamate a correggere l’ambiguità di fondo della democrazia borghese: se quest’ultima consente la partecipazione diffusa solo con le elezioni, le prime la offrono sempre.
Di qui il ruolo particolare dei partiti e dei sindacati, e più in generale dei soggetti politici chiamati a rappresentare e mediare interessi. Tutti quei soggetti costituiscono l’articolazione della sovranità popolare, mentre la dialettica a cui danno vita rappresenta il fondamento primo di un ordine democratico.
Sovranità, libertà e uguaglianza
Da sempre si sottolinea il nesso tra la sovranità popolare da un lato, e la libertà e l’uguaglianza dall’altro. Se però la sovranità popolare è l’autogoverno di cittadini liberi e uguali, occorre tenere conto delle trasformazioni che nel corso del tempo hanno interessato il principio di uguaglianza. Occorre cioè considerare l’uguaglianza in senso sostanziale, che abbiamo visto essere tale perché collegata al dovere dei pubblici poteri di rimuovere gli ostacoli alla sua realizzazione. E ciò equivale a dire che, se prima la libertà e l’uguaglianza costituivano il presupposto per l’esercizio della sovranità popolare, ora questa richiede anche la solidarietà. Solidarietà fuori dal mercato, attraverso le prestazioni dello Stato sociale, ma anche nel mercato, con il bilanciamento della debolezza sociale attraverso la forza giuridica, ovvero con il riconoscimento di diritti riservati a chi incontra ostacoli allo sviluppo della persona umana nell’ambito delle relazioni economiche.
Se così stanno le cose, l’affermazione del principio della sovranità popolare richiede che siano assicurati i diritti della tradizione liberale, ovvero i diritti di libertà: alla libera manifestazione del pensiero, alla libertà personale, alla libertà di associazione, alla libertà di movimento, alla libertà di religione, e così via. Si richiede però anche la garanzia dei diritti sociali, ovvero la promozione, tra l’altro, del diritto alla salute con la garanzia di cure gratuite agli indigenti (art. 32), del diritto all’istruzione inferiore gratuita e superiore assicurata a chi è privo di mezzi (art. 34), del diritto al mantenimento e all’assistenza sociale per chi è inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere, e del diritto a mezzi adeguati alle esigenze di vita per i lavoratori colpiti da infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia e disoccupazione involontaria (art. 38).
Si diceva però che promuovere la parità sostanziale non significa solo predisporre un sistema di welfare. Lo Stato deve intervenire anche nel mercato, in ultima analisi per consentire la formazione di contropoteri capaci di contrastare i poteri economici: per redistribuire le armi del conflitto sociale. Di qui un ulteriore nesso tra l’uguaglianza e la sovranità popolare, e in particolare con la sua articolazione funzionale allo sviluppo della dialettica democratica.
Sovranità nello Stato e sovranità dello Stato
Si è soliti distinguere tra una sovranità nello Stato e una sovranità dello Stato. La prima coincide con la sovranità popolare di cui abbiamo parlato finora, mentre la seconda è quella che riguarda le relazioni tra Stati e attiene all’esercizio della supremazia nella comunità internazionale.
Abbiamo visto che entrambe sono richiamate dalla Costituzione: la sovranità popolare soprattutto laddove si qualifica l’Italia come Repubblica democratica fondata sul lavoro (art. 1), e la sovranità statale nelle disposizioni in cui si ammette la sua limitazione per favorire la pace e la giustizia fra le Nazioni (art. 11) e l’appartenenza alla costruzione europea (art. 117). È evidente che i due aspetti della sovranità sono intimamente collegati: l’esercizio della sovranità popolare, soprattutto se concepito come strumento per promuovere l’uguaglianza sostanziale, presuppone necessariamente la sovranità statale.
Ciò emerge con particolare forza analizzando le condizioni per lo sviluppo del compromesso keynesiano, che concerne l’esercizio della sovranità popolare in quanto attiene direttamente il modo di concepire la libertà e l’uguaglianza dei cittadini. Abbiamo già osservato come quel compromesso sia stato rovesciato a partire dalla costruzione di un sistema di libera circolazione dei capitali, alla base della rinuncia a controllare le dinamiche relative ai processi di finanziarizzazione dell’economia. Peraltro anche la libera circolazione delle merci può intralciare una politica di sostegno alla piena occupazione, o meglio vanificarla. Se infatti si sostiene la capacità di consumo dei lavoratori, occorre che essa non si risolva in un incremento dell’importazione di beni. Occorre cioè che ai pubblici poteri sia consentito di intervenire per alimentare la spirale virtuosa per cui la misura produce nuovi posti di lavoro, e questi ulteriori consumi.
Detto questo, la cessione di porzioni di sovranità statale si può ammettere se avviene a favore di una comunità politica nella quale operano meccanismi volti a redistribuire ricchezza dalle zone ricche a quelle povere. E inoltre se in quella comunità politica si riproducono le condizioni per l’esercizio della sovranità popolare.
Lo sa bene la Corte costituzionale tedesca, che nelle sue pronunce sottolinea come l’Europa sia una costruzione nella quale il parlamento non possiede in alcun modo le prerogative tipiche del parlamento tedesco, motivo per cui occorre tutelarlo contro eventuali azioni incompatibili con l’esercizio della sovranità popolare[6]. È chiaro che simili osservazioni suonano offensive, se si considera che proprio i Trattati di Maastricht e Lisbona, alla cui ratifica sono dedicate le pronunce della Corte, hanno definitivamente piegato la costruzione europea alle necessità tedesche. E tuttavia il principio merita di essere salvato giacché evidenzia il nesso tra sovranità popolare e sovranità statale, e in particolare le compressioni della prima che derivano dalle cessioni della seconda a favore del livello europeo.
Se così stanno le cose, non è con la “riscossa morale” invocata da Perotti che si può invertire la rotta. Sarebbe condannata a infrangersi contro il medesimo muro che rende vane e illusorie aspirazioni a democratizzare la costruzione europea. Forse la si potrà un giorno risintonizzare con la sovranità popolare, trasformarla in una comunità politica nella quale trasferire risorse dalle persone che ne dispongono in abbondanza alle persone bisognose, e dalle aree floride a quelle meno fortunate. Se questo si potrà ottenere, sarà però il risultato di un passaggio intermedio: una riconquista di sovranità statale, indispensabile a riattivare la sovranità popolare, a sua volta essenziale a smontare l’Europa del mercati e a edificare in sua vece l’Europa dei popoli.
Note
[1] D. Perotti, Lo impone il mercato. Come i nostri governanti hanno stravolto i principi costituzionali, Reggio Emilia, Imprimatur, 2018.
[2] Cfr. A. Somma, Europa a due velocità. Postpolitica dell’Unione europea, Reggio Emilia, Imprimatur, 2017, p. 145 ss.
[3] Cfr. M. Fioravanti, Costituzione e sovranità popolare, 2. ed., Bologna, Il Mulino, 2004, p. 87 ss.
[4] V. Crisafulli, La sovranità popolare nella Costituzione italiana (1954), in Id., Stato, Popolo, Governo, Milano, Giuffrè, 1985, p. 91 ss.
[5] N. Urbinati, Costituzione italiana: art. 1, Roma, Carocci, 2017, p. 95 s.
[6] Sentenze del 7 giugno 2000 sulla ratifica del Trattato di Maastricht, e del 30 giugno 2009 sulla ratifica del Trattato di Lisbona.
Questo articolo è stato pubblicato da Micromega Online il 5 aprile 2018

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