di Alessandro Principe
Marco Omizzolo è un affermato sociologo, con una lunga serie di esperienze e pubblicazioni in Italia e all’estero. È ricercatore, giornalista e responsabile scientifico della cooperativa In Migrazione. Da diversi anni si occupa di migranti nel mondo del lavoro e ha più volte denunciato, anche con dettagliati dossier, il fenomeno del caporalato e dello sfruttamento degli stranieri nei campi.
Omizzolo, insomma, è uno che dà fastidio. Perché studia, ha in mano dati, nomi, conoscenze. E non sta zitto.
La notte del 9 marzo ha subìto un grave atto intimidatorio: il cofano e i vetri della sua auto sono stati sfondati e i pneumatici squarciati.
Cosa è successo?
L’ennesimo atto di intimidazione nei miei confronti. La mia auto di notte. Tagliate tutte e quattro le ruote, rotto il cofano e il parabrezza, rigato la fiancata. Non è la prima volta e desta molta preoccupazione negli inquirenti per la mia forte esposizione. Ho registrato una grande solidarietà, anche trasversalmente, alla politica, al mondo economico, al terzo settore, a colleghi docenti. Nessuno dubita che si tratti di una minaccia nei miei confronti. È un messaggio di solidarietà che arriva anche a questi vigliacchi e pavidi.
Non è la prima volta, vero?
Con queste modalità è la seconda volta. Capitò già due anni fa a ridosso dello sciopero organizzato da me, con la mia cooperativa, dalla Cgil e dalla comunità indiana del Lazio che ha portato in piazza circa 4mila braccianti indiani per protestare contro il caporalato e lo sfruttamento de loro lavoro nei campi. Poi ci sono stati altri episodi, con modalità diverse, ma è un sistema che si ripete da tempo.
Perché ce l’hanno con lei?
Ce l’hanno con me a ragione, se sono i criminali di questo territorio. Io mi occupo come giornalista e ricercatore di studiare e poi comunicare quello che accade nelle nostre campagne. Con fenomeni di vera e propria schiavitù di braccianti soprattutto indiani, e più in generale immigrati, alle dipendenze di caporali e padroni, trafficanti di esseri umani e mafiosi. Arrivano a sfruttarli fino a indurli in alcuni casi ad assumere sostanze dopanti per reggere i ritmi dello sfruttamento, a indurli a volte al suicidio. Vengono consumati dal punto di vista proprio della vita. E il business per gli sfruttatori è rilevantissimo.
Un territorio, quello del basso Lazio, dell’Agro Pontino, meno sotto i riflettori rispetto a situazioni come la Puglia, con lo sfruttamento nei campi di pomodori, o regioni come Calabria e Sicilia.
Vi dò alcuni dati che descrivono la dimensione di questo fenomeno. In provincia di Latina la comunità indiana conta circa 30mila persone. Sono qui da circa trent’anni e vengono impiegati per il 70% in agricoltura come braccianti in condizione di grande sfruttamento. Anziché essere pagati 9 euro l’ora per lavorare 6 ore e mezza per sei giorni, come da contratto provinciale, vengono retribuiti 3 euro l’ora, per lavorare 14 ore al giorno, sette giorni alla settimana. Con l’obbligo di abbassare la testa e fare tre passi indietro quando si rivolgono al datore di lavoro, in una situazione di sottomissione totale.
Come funziona il traffico?
C’è una sistema internazionale di tratta a scopo di sfruttamento lavorativo che vede un collegamento tra alcune aziende pontine e l’India, il Punjab, la regione dalla quale viene la maggioranza dei braccianti. Questo sistema si è sedimentato negli anni e ha generato un business enorme. Le aziende agricole solo nel pontino solo 6mila e 500.
Sono aziende regolari, ufficialmente registrate?
Assolutamente sì. Sono iscritte alla Camera di commercio, depositano i bilanci, hanno almeno un dipendente. Alcune sono anche di grandi dimensioni, tra le maggiore d’Italia che commercializzano in via diretta o attraverso il mercato ortofrutticolo di Fondi che è il quarto più grande d’Europa, il secondo d’Italia. Qui la magistratura ha accertato la presenza di tre clan: Corleonesi, Casalesi e ‘ndrangheta. Insieme collaborano e gestiscono una parte della produzione agricola di questo territorio.
Ma perché non ci sono dei controlli su questo sfruttamento dei lavoratori, visto che si tratta di aziende alla luce del sole, regolari?
All’ispettorato del lavoro ci sono solo due ispettori. E nessuna auto disponibile per i controlli nelle campagne. Il sistema dei controlli è del tutto inefficiente e inefficace. Troppo sesso abbiamo anche constatato una vicinanza eccessiva tra alcune aziende e l’Ispettorato stesso. In più, c’è una lettura non aggiornata del fenomeno da parte degli organi investigativi.
Noi ci siamo sentiti dire da parte di importanti esponenti istituzionali che siccome il caporalato era interno alla comunità indiana, poteva essere tollerato perché non coinvolge italiani.
Ma i capi delle aziende sono italiani!
Assolutamente. I padroni delle aziende sono italiani, i liberi professionisti che collaborano con loro per truffare lo Stato – perché c’è anche una forte evasione contributiva – sono italiani, avvocati commercialisti, notai, consulenti. I trafficanti indiani hanno relazioni con il mondo politico locale. Non vedere questo significa relegare il fenomeno a un affare tra bande interno a una minoranza. Purtroppo non è così.
Ci sono processi in atto?
Sì, sono partiti i primi processi in conseguenza della nuova legge contro il caporalato e dopo lo sciopero. La provincia di Latina è quella con più arresti di caporali dopo il 2017. È un dato positivo, ma il problema è che la lunghezza delle indagini e dei processi e la complessità degli stessi porta troppo spesso a un nulla di fatto. Noi ci siamo costituiti parte civile in alcuni di questi processi, abbiamo fatto costituire parte civile anche i lavoratori. Dopo nostre denunce sono stati arrestati alcuni datori di lavoro. C’è una importante alleanza con una parte della magistratura e delle forze dell’ordine.
La lentezza dei processi non aiuta a uscire allo scoperto chi vorrebbe denunciare…
Certo. Ci sono persone che hanno denunciato cinque anni fa e presso il tribunale di Latina ancora si deve tenere la prima udienza. E loro vengono licenziati e intimiditi, intimoriti. Questo lo raccontano alla loro comunità e diventa ancora più difficili trovare altre persone che decidono di ribellarsi e denunciare.
Non mi pare che di questa situazione si sia parlato granché in campagna elettorale…
Proprio per nulla. E non escludo che quello che è capitato a me sia dovuto anche al predominio di una parte politica che in campagna elettorale ha volutamente evitato questo tema.
Di chi parla?
Lega e Fratelli d’Italia.
Questo articolo è stato pubblicato da Radio Popolare l’11 marzo 2018