di Luciana Castellina
Sono rimasta zitta fino ad ora per svariate ragioni:
- 1) perché non avevo voglia di parlare. Come, credo, tutti noi. E siccome non ho incarichi che mi obblighino a farlo, ne ho approfittato;
- 2) perché sono una vecchia abituata ai partiti, e per dire cosa bisognerebbe fare, aspetto di confrontarmi con la mia organizzazione, Sinistra italiana, che riunisce il suo Comitato Nazionale sabato prossimo;
- 3) perché – e questa è la ragione più importante – non so che dire.
Quanto è accaduto è andato troppo al di là delle pur negative aspettative che nutrivo, rafforzate dalla esperienza di campagna elettorale fatta in svariate regioni d’Italia. Parlare, certo, bisogna. Ma vorrei che tutti evitassimo conclusioni frettolose. La crisi, non solo della sinistra ma della democrazia, è troppo profonda per non imporci una riflessione collettiva di lungo periodo. Dico crisi anche della democrazia perché se siamo arrivati a questo risultato è anche perché non c’è più quel tessuto politico-sociale che i grandi partiti di massa offrivano un tempo al confronto, e dunque ad una analisi del presente e a una costruzione collettiva del progetto da proporre.
Un vuoto che i movimenti, che pure hanno avuto ed hanno (quando ci sono, e non è sempre) un ruolo importante, non hanno saputo riempire con reti consolidate di riferimento. Il solo voto, senza tutto questo, è troppo poco per far vivere la democrazia, porta alla ribalta solo un’agorà popolata da individuali grida di scontento o di plauso improvvisato. È facile dire che si è perduto il rapporto col territorio.
Certo che si è perso, perché sul territorio non c’è più vita sociale e ricostruirla è oramai difficilissimo: la gente non ne vuole sapere; gli orari di lavoro non sono più omogenei come quando era naturale incontrarsi alle 7 di sera in sezione (il precariato ha prodotto anche questo guaio); non ci sono più le sedi; i socials, checché ne dicano i miei compagni giovani, non suppliscono, rischiano di diventare solo un noioso ammasso di sfoghi personali.( Ma come si fa a scegliere chi dove rappresentarci, senza aver avuto modo di verificare nel tempo e nel concreto le sue capacità e affidabilità?)
Fra le cose che non so, c’è anche questa: come si ricostruisce una cultura e una pratica collettiva, un rapporto con l’altro, un senso di responsabilità comune, visto che non si possono reinventare più i vecchi partiti e però non si può nemmeno fare a meno della funzione cui essi assolvevano. Quello che so, tuttavia, è almeno questo: che il problema non si può eludere.
Ce lo impone il fatto che viviamo in un tempo di terribili cambiamenti, che stanno già producendo e produrranno anche peggiori mutamenti al nostro modo di vivere e di lavorare, rispetto ai quali il nostro pensiero di sinistra è balbettante.
Non ci aiutano i progetti del passato (né quelli comunisti, né quelli socialdemocratici), ma nemmeno ne abbiamo altri, e solo dire che non siamo liberisti e bisogna combattere la disuguaglianza, è ben lungi dal bastare. Pensare che basti redistribuire più equamente gli stessi beni – obiettivo già impervio – non è più nemmeno sufficiente, occorre – di fronte al disastro ecologico e al mutamento del lavoro – fare assai di più: produrre in modo diverso beni diversi e indurre consumi diversi. Cioè cambiare anche gli esseri umani.
Direte che potevo fare anche a meno di scrivere se era solo per dire che tutto è difficilissimo e noi siano impreparati. L’ho fatto perché mi sento in dovere di un’autocritica. Questa: quando abbiamo dovuto decidere come affrontare queste elezioni io sono stata fra i più convinti sostenitori della proposta Liberi ed Uguali. Ritengo tuttora che non ci fosse alternativa migliore, nonostante i limiti dell’esperienza di cui tutti eravamo peraltro consapevoli.
E però io ho creduto veramente che il distacco dal Pd di un gruppo così consistente e qualificato della sua leadership, si potrebbe dire quasi tutta quella proveniente dal Pci, avrebbe scosso il vecchio corpo cresciuto se non più dentro quella organizzazione ormai sepolta da tempo, ma nella scia di quella cultura e tradizione. Che la rottura di Mdp, insomma, avrebbe portato allo scoperto la contraddizione ormai stridente fra un partito, il Pd, che si definisce di sinistra e però è da tempo espressione di un altro blocco sociale.
E che dunque un gesto così estremo come l’abbandono della “ditta” da parte, non di una frangia, ma di una così consistente parte della storia della sinistra, avrebbe suscitato riflessione, e rinnovata mobilitazione in una base ormai passivizzata. Mi sono sbagliata. Era ormai troppo, troppo tardi
. Quel corpo, quei compagni, tanti dei quali conosco bene per aver così a lungo condiviso con loro tante battaglie, quelli che, pur essendo sempre più scettici verso le ripetute reincarnazioni del Pci, continuavano tuttavia a dire “il partito”, quella storia si è oramai largamente consumata. I loro voti hanno lasciato il Pd, ma si sono perduti nella Lega, nei 5 stelle, nell’astensione, io credo senza entusiasmo, visto che non c’è nulla di consistente nelle promesse alimentate, ma per rabbia e confusione.
Adesso dobbiamo ricominciare da capo. Innanzitutto riprendendo a riflettere insieme, senza farci dominare dall’assillo dell’immediato. (Potremmo dire che, per fortuna, siamo così piccoli da non esser determinanti né nel bene né nel male, anche se nel PdUP dicevamo, giustamente, che, secondo l’insegnamento di Santa Teresa di Lissieux, bisognava comunque comportarsi come se tutto dipendesse da noi.)
Ragionando su come si ricostruisce una rappresentanza sociale, che non si recupera alzando il livello delle proposte, col “più uno” rivendicativo, ma costruendo un soggetto che sia in grado di imporle, un compito oggi reso impervio dalla frantumazione del lavoro, e dunque ormai anche delle culture. Per farlo non basta la protesta, ma sempre più un progetto che renda chiara e convincente un’alternativa. (Per questo il prossimo congresso della Cgil ci interessa tutti, non è solo dibattito interno al suo gruppo dirigente.)
Con chi dobbiamo lavorare? Anche a questo interrogativo non so rispondere, vorrei solo che avviando, come si deve, una costituente che coinvolga tutti quelli che più o meno la pensano come noi, non si buttasse via troppo frettolosamente Sinistra Italiana, un pezzetto piccolo ma prezioso in questo incerto scenario.
Talvolta gli shock sono salutari. Io porto ancora la ferita di quello del 18 aprile 1948. Ma ho anche un ricordo bellissimo di cosa, spontaneamente, senza nemmeno dircelo, facemmo tutti il 19 mattina, dopo l’inattesa batosta del Fronte popolare: uscimmo con al petto il distintivo comunista. Per dire: ci siamo ancora. E ricominciammo davvero da capo, con un po’ di più seria attenzione alla realtà della società italiana.
Erano altri tempi, ovviamente, e questo mio ricordo suona retorico. Ma certo mi piacerebbe che fosse così anche per lo shock che ci ha fatto vivere la sberla del 4 di marzo.
Questo articolo è stato pubblicato dal Manifesto sardo il 10 marzo 2018 riprendendolo dal quotidiano Il manifesto