Lingotto uno, Lingotto due e la crisi dei partiti – Prima parte

19 Febbraio 2018 /

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di Luigi Agostini
Dopo la sconfitta di Veltroni, dopo la sconfitta di Bersani, dopo la sconfitta di Renzi – non solo è necessario ma anche possibile una valutazione di bilancio sull’intera sequenza che parte dal Lingotto Uno e giunge fino ad oggi. Non fermarsi quindi alla fenomenologia della crisi, che attanaglia in questi giorni il Partito Democratico, ma tirare un bilancio ragionato, se si vuole riflettere utilmente. Tali sconfitte riportano comunque la questione Partito al centro dell’interesse, confermando per la Sinistra, pur indirettamente, l’antico principio che senza Partito non c’è politica democratica.
La concezione del Partito proposta al Lingotto Uno, d’altra parte, era la risultante di un processo iniziato nell’Ottantanove e che di passaggio in passaggio (qualcuno dice di espediente in espediente), su proposta di Romano Prodi aveva trovato al Lingotto il suo esito, esito mutuato dalla esperienza americana: partito elettorale, primarie, personalizzazione, partito, scalabile (in franchising come veniva definito da qualcuno) in cui la comunicazione era grande parte e, infine, sostanziale bipartitismo.
Si potrebbe sostenere che la caduta di Prodi nelle recenti elezioni per la Presidenza della Repubblica, cioè del principale importatore/ ideatore di tale operazione, suonava già come epitaffio di tale concezione. Ma è giusto approfondire il discorso, cercare le risposte al fallimento nelle stesse cause che l’hanno determinato. Specie oggi.

La separazione dal Partito democratico del principale troncone della Sinistra Storica indubbiamente conclude un lungo cammino. Un atto, al di là di alcuni aspetti e caratteristiche accidentali, che inverte la rotta tracciata al Lingotto. Il progetto prospettato al Lingotto da Valter Veltroni di un unico Partito tra la gran parte degli eredi della cultura ex-comunista e tra gli eredi della cultura della Sinistra ex-democristiana è approdato ad una logica – a guardar bene – di separazione.
La scissione non è che la logica traduzione di una antica legge della politica: le grandi culture tra loro possono competere, possono confliggere, possono dar vita ad alleanze, ma non possono fondersi (basti pensare ai temi della biopolitica, per esempio, oggi divenuta così importante). Un Partito si fonda su un principio e una cultura, le alleanze si fondano su un programma. L’amalgama non è riuscito.
L’intera sequenza inoltre evidenzia due paradossi. Il primo paradosso: Veltroni propose al Lingotto un Partito elettorale, in franchising per usare la formula di R. K. Carty, mentre nel mondo bolliva, fino ad esplodere, la più grande crisi del capitalismo (del capitalismo specificamente occidentale). Un caso da manuale in cui, per dirla con Paul Sveezy, il presente non viene vissuto come storia. Un partito leggero, per tempi tranquilli, adatto se mai e fino ad un certo punto, data la natura contradditori delle forze contraenti, ad affrontare tematiche civili, ma incapace, se non indifferente, alle tematiche produttive e sociali, che inevitabilmente la crisi avrebbe rovesciato nella vita quotidiana di grandi masse.
Si può dire che tale proposta era fuori dalla storia in fieri, ma in buona compagnia: la stessa idea di crisi era stata espunta da tutta l’Accademia – tranne Nouriel Roubini -, ma anche a sinistra, con in testa – à outrance – la sinistra privatizzatrice, persino dall’ordine delle possibilità ridotta a turbolenza o semmai a fenomeno confinato a realtà periferiche. Chi ricorda la Terza via? L’irrompere della crisi ha invece spiazzato l’intera operazione dalle fondamenta.
Secondo paradosso: la natura della crisi, e quindi le sue cause, i suoi caratteri, le sue implicazioni, la sua durata. Un conto è una crisi congiunturale, crisi che si può affrontare anche con qualche misura redistributiva dal versante della domanda, altro conto una crisi strutturale, una crisi da sovraccapacità produttiva, una crisi dal versante della offerta, un vero e proprio movimento tellurico che non può che scompaginare tutti gli assetti, anche quelli più consolidati della società.
Tale crisi per poter essere affrontata – il tema dominante è un nuovo modello di sviluppo – ha bisogno di soggetti a dimensione continentale e allo stesso tempo, di un Partito con un radicamento sociale e territoriale formidabili. Quindi di un Partito con caratteristiche opposte al Cartel Party proposto.
Sorge spontanea la domanda: in una crisi che ha assunto questi caratteri, in un Paese che ha la storia dell’Italia – secondo paradosso – come può verificarsi l’assenza di un grande Partito che si richiami esplicitamente alla/e cultura/e socialista/e?
In fondo è stato Karl Marx che per primo capì e teorizzò che il capitalismo si sarebbe sviluppato attraverso le crisi, e oggi un Partito che non si dota di un pensiero della crisi (a partire da Marx, lo spirito del mondo, come lo chiama Jacques Attali in una splendida biografia) è destinato alla sovrastrutturalità, se non alla superfluità.
In fondo, l’errore di Bersani, l’errore a cui tutti gli altri errori possono essere ricondotti, sta non tanto nel non aver nominato la crisi, ma nel non averla qualificata, definita e quindi nel non aver potuto/voluto declinarne tutte le implicazioni sia in termini di linea politica sia di concezione del Partito: ha soltanto alluso ad un partito nuovo, di “combattimento’ ma non ha saputo o potuto dargli né identità né organizzazione.
Al dunque, i movimenti di contestazione, innescati dalla crisi, hanno incontrato una sinistra subalterna al liberismo, una sinistra privatrizzatrice, il che ha portato tali movimenti ad una diffidenza radicale sulla volontà e possibilità di contrastare le diseguaglianze e gli effetti perversi dei processi di finanziarizzazione, ragioni di fondo della crisi: li ha portati cioè a stabilire una equivalenza tra destra e sinistra sulla loro possibilità/capacità di affrontare la crisi.
Manuel Castells, in un suo saggio recente sui movimenti sociali innescati dalla crisi, sostiene che gli Indignatos di Porta del Sole sono costati a Zapatero quasi cinque milioni di voti. In fondo, il fenomeno Grillo cosa è se non la somma contradditoria di Tea Party e di Indignados?
Il referendum sull’acqua, avvenimento di straordinaria importanza nello sviluppo del grillismo, rappresenta il caso esemplare di come la radicalizzazione dei comportamenti sociali indotti dalla crisi, abbia aggirato, accantonato la sinistra subalterna al mercato: l’esito del referendum, cioè la ripubblicizzazione dell’acqua, ha trovato in quasi tutti i sindaci del Pd, in gran parte sostenitori del referendum per ragioni puramente politiche, resistenze e ostruzionismi tali da vanificare una delle più esemplari vicende democratiche.
La domanda di valenza strategica riguarda quindi di quale Partito dotarsi per stare dentro al processo di radicalizzazione dei comportamenti sociali in atto e in rapido mutamento, visto che la crisi tenderà a svilupparsi e a prolungarsi attraverso sue dinamiche autonome, non governate, per incapacità o per scelta dal potere della politica.
In termini concreti di Partito, questo significa Identità ed Organizzazione. La Identità del Partito, il tratto identitario non può che essere l’eguaglianza. L’Egalité come idea-forza, il suo principium individuationis. Siamo, come sostiene Pierre Rosanvallon, alla seconda grande crisi della eguaglianza, dopo quella del primo Novecento.
Alla prima crisi, che la destra costruì attorno alle idee del nazionalismo, del protezionismo, della xenofobia, la sinistra rispose con la costruzione dello Stato sociale. Ora, quali politiche della eguaglianza al tempo della mondializzazione dei mercati e della rinazionalizzazione degli interessi? Questa è la sfida globale come ci ricorda Joseph Stiglitz nella sua ultima fatica, dedicata appunto al prezzo della diseguaglianza.
Louis Dumont, citando la lettera ai Galati di Paolo di Tarso, l’inventore del principio di eguaglianza, sosteneva, che il concetto di individuo (siamo alla società degli individui) stà in primo luogo e in relazione diretta con il concetto di eguaglianza.

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