Cinecittà, la tattica dei signori degli "Studios"

9 Febbraio 2018 /

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di Vincenzo Vita
E due. Secondo annuncio da parte del ministro Franceschini e del presidente dell’Istituto Luce Roberto Cicutto sul ritorno nella sfera pubblica degli Studios di Cinecittà. La scorsa settimana ulteriore conferenza stampa, dopo quella tenutasi prima dell’estate. È vero che nell’ultima circostanza sono state aggiunte ulteriori notizie: dalle mostre su Federico Fellini e Monica Vitti, al lancio del Museo italiano del cinema e dell’audiovisivo.
Tuttavia, il completo ritorno nella casa dello stato della società frettolosamente privatizzata vent’anni fa richiedeva qualche spiegazione in più. Vale a dire, chi e perché ha fallito. La cordata degli imprenditori, da Abete a De Laurentis, non ce l’ha fatta, ma l’insuccesso non è stato innocente o figlio del destino. Si è perseguita una linea assurda e destinata (ma chi lo disse o scrisse in tempi non sospetti fu tacitato) ad un prevedibile flop.
Non solo. Deboli con i competitori internazionali, i signori degli Studios esibirono la loro volontà di potenza con lavoratrici e lavoratori: cassa integrazione, ricorso alla mobilità, cessione di rami di azienda. Fu necessaria una lunga occupazione simbolica nel 2012 per bloccare la destrutturazione e per debellare il morbo antico della speculazione edilizia sui e dei terreni.

Tentazioni vecchie e presenti già nel piano di ristrutturazione che accompagnò la cessione ai privati. Scrisse lucidamente su «MondOperaio» (nn3/4 del 1996) l’ex direttore dell’Ente gestione cinema e di Cinecittà International Vittorio Giacci: «si ha quasi la sensazione che non si tratti di un piano solo ma di due… un primo, sfuggente e vacuamente avvenirista quel tanto che basta per renderlo inattuabile, ed un secondo, più oscuro e sotterraneo, ove aleggiano, dietro macchinose ipotesi di ingegneria societaria, trasferimenti di proprietà, vendite e cessioni, alienazioni e cementificazioni…».
Simile «doppiezza» è alla base della miserrima sorte del capitalismo all’italiana. Ora, a sentire il titolare del Mibact, si volta pagina, con un investimento di 60 milioni di euro (pochini, in verità) per il triennio 2017-1019. Ed è stato evocato il possibile raccordo con la Rai, altra chimera che risale a quasi quarant’anni fa. Vedremo.
Certamente, la ri-costruzione di un forte gruppo pubblico cross-mediale è necessaria, ma nel contesto di una strategia. Non come toppa messa per rimuovere le verità scomode. A parte, insomma, l’incoronazione di Roberto Cicutto, nuovo ministro-ombra del cinema essendo all’Istituto Luce un ruolo assai vasto, quali sono le politiche culturali sottese al cambio societario? È una tattica di mantenimento transitorio in attesa di cordate privati solide, magari internazionali? O è, come piacerebbe pensare, il primo gradino di un ridisegno delle linee pubbliche, dal cinema all’audiovisivo?
Serve un chiarimento, proprio nei giorni in cui la campagna elettorale disegna programmi e obiettivi per il futuro. Se davvero si vuole girare (finalmente) la ruota verso il bene comune, allora è da mettere in cantiere una riforma di sistema che superi il logoro Testo unico del 2005, la leggina sulla Rai del 2015 e riveda la fresca normativa di settore. Altrimenti è un fuoco fatuo.
E’ legittimo attendersi un atto impegnativo, come la convocazione di Stati generali, in cui le categorie del lavoro abbiano l’opportunità di essere protagoniste, e non comparse.
Ps: E che c’entra l’ipotesi avanzata di una Casa del videogame? Ricominciamo?
«Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano Il manifesto il 7 febbraio 2018

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