di Giulia Zaccariello
Lavorare per 10, 12 ore, a volte addirittura 14. In un solo giorno. Con pause per il bagno conquistate con fatica, quasi fosse una concessione, mentre quintali di carne scorrono veloci sul nastro: i ritmi impongono a ciascun operaio di pulire decine, anche centinaia di pezzi. Sono questi i racconti che fanno da sfondo alla protesta degli ormai ex-operai in appalto della Castelfrigo, azienda di Castelnuovo Rangone, in provincia di Modena, dove si sezionano parti di maiali, in particolare pancette e gole.
Qui i lavoratori lasciati a casa nell’autunno del 2017 dalle coop Work Service e Ilia D.A (a cui la Castelfrigo aveva dato in appalto i servizi di logistica) hanno superato il 90esimo giorno di sciopero. E da oltre un mese stanno vivendo, giorno e notte, davanti allo stabilimento, nelle tende montate dalla Flai-Cgil, dandosi il cambio per il presidio notturno e combattendo il freddo umido che punge la pianura, allungando le mani su una sorta di bidone stufa, utile anche per scaldare il cibo.
Sono tutti stranieri, arrivano in gran parte dall’Albania, dal Ghana, dalla Costa d’Avorio e dalla Cina. “Perché accettiamo queste condizioni? Il più grande problema di uno straniero è rinnovare il permesso di soggiorno e per farlo abbiamo bisogno di un contratto. È un ricatto”. E così spesso firmano di tutto, diventano soci o addirittura presidenti delle cooperative. Lulja Harum, 30enne albanese, ad esempio, è stato per molto tempo presidente di una cooperativa a sua insaputa.
Lo ha scoperto solo quando la Guardia di Finanza ha bussato a casa sua e gli ha detto che avrebbe dovuto saldare un debito di 1milione e 700mila euro. “Mi avevano detto di firmare e stare tranquillo, che in questo modo avrei avuto il lavoro – racconta a fatica davanti alla telecamera – ma non io non sapevo né leggere, né scrivere”. Il meccanismo lo spiega Umberto Franciosi, segretario della Flai Cgil Emilia Romagna che insieme ad altri suoi colleghi si dà il cambio regolarmente per garantire una presenza costante al sit-in. “Ogni 2 o 3 anni, queste false cooperative si sciolgono perché capeggiate da prestanome nullatenenti, lasciando grossi debiti di Iva non versata, di Irap non pagata e di mancati contributi”.
Ogni mattina, all’alba, chi protesta fuori dall’azienda vede gli ex colleghi varcare i cancelli dello stabilimento per andare al lavoro. Tra loro ci sono anche i 52 che non hanno scioperato, riassunti per 6 mesi tramite una società interinale, grazie a un accordo sottoscritto dalla Fai-Cisl e sotto accusa dalla Cgil: “Per la prima volta in Italia l’esercizio del diritto di sciopero è diventato elemento formale di discriminazione dei lavoratori in un accordo sindacale”.
Ma se la Cisl difende le modalità con cui ha portato avanti al vertenza, in un audio registrato di nascosto nel 2016 durante un’assemblea con i lavoratori si sente il proprietario della Castelfrigo, Roberto Ciriesi, dire chiaramente agli operai delle coop di “scegliere il sindacato giusto”. Ma non solo: nello stesso video Ciriesi se la prende con chi ha iniziato a protestare (i primi scioperi sono dell’inizio del 2016 e hanno portato all’applicazione del Contratto nazionale dell’industria Alimentare), reo a suo parere di aver attirato i controlli dell’ispettorato del lavoro e della Finanza. Il Fatto.it ha contattato la Castelfrigo per avere un commento, ma l’azienda “in questo momento ha deciso di non rilasciare alcuna dichiarazione”.
Le storie si replicano, quasi sempre con lo stesso copione, se ci si sposta nelle altre aziende delle carni del modenese. Un settore che vale 3 miliardi di euro, con 170 imprese, molte delle quali si avvalgono di cooperative per tagliare i costi: secondo la Cgil dei 5mila occupati del distretto agroalimentare, circa 1500 vivono condizioni di lavoro simili a quelli della Castelfrigo. Numero che cresce se si considera tutta Italia, e raggiunge i 17mila lavoratori.
“Le responsabilità – spiega Franciosi – sono delle imprese che per abbattere i costi di produzione utilizzano queste forme di lavoro, ma anche della politica. Sono state cambiate ad hoc alcune leggi, a partire dalla legge Biagi che ha completamente tolto il reato penale per l’intermediazione illecita di manodopera. Per arrivare fino al Jobs act, con la depenalizzazione della somministrazione irregolare di manodopera. Una vera manna dal cielo per queste imprese”.
Questo articolo è stato pubblicato dal FattoQuotidiano.it il 24 gennaio 2018