La sinistra e il futuro che ci aspetta: il pensiero di Randall Collins

26 Gennaio 2018 /

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di Nicolò Bellanca
Per un’efficace strategia politica di Sinistra, accanto a una valida analisi del presente, occorre provare a prevedere quello che accadrà. Una Sinistra che si proponga di modificare lo stato delle cose, non può eludere il nodo del futuro: non le basta capire come intervenire sulla situazione data; le occorre anche cogliere i movimenti profondi della struttura sociale che, se lasciati a sé stessi, orienteranno l’evoluzione collettiva. Tuttavia, questo esercizio è uno dei più ambiziosi e rischiosi che un ricercatore possa intraprendere.
Esso presenta un margine di errore talmente elevato, che molti studiosi lo giudicano vano e irrazionale. Chi lo effettua seriamente è un intellettuale metodologicamente avvertito, che decide di mettere in gioco parte della propria reputazione pur di non rinunciare allo “squarcio di luce” che dalla prognosi può scaturire. Recentemente, in questi termini si sono coraggiosamente confrontati con l’avvenire due dei maggiori sociologi contemporanei, Randall Collins e Wolfgang Streeck, e un eminente economista dello sviluppo, Branko Milanovic. Mentre di Streeck e Milanovic parlerò in successivi articoli, oggi mi soffermo sul contributo di Collins, che espongo liberamente, rafforzandone alcuni passaggi con mie considerazioni [1].
Alle prese con i cambiamenti strutturali del sistema economico, Collins tenta di cogliere le forze essenziali, tenere conto delle maggiori controtendenze e argomentare la traiettoria che dovrebbe imporsi. A suo avviso, il dilagare dell’automazione – le tecnologie dell’informatica e della computerizzazione – sta sostituendo il lavoro umano con robot o macchine intelligenti. Il fenomeno non sembra originale: già ai tempi di Marx, oltre 150 anni fa, la tecnologia iniziò a rimpiazzare le attività agricole e manifatturiere.

Ciò ridusse notevolmente il numero dei salariati e avrebbe potuto, ceteris paribus, condurre alla fine del capitalismo, poiché un sistema economico basato sull’acquisto del lavoro umano e sulla vendita di merci a compratori in grado di pagare, non potrebbe sopravvivere se sparissero i lavoratori e se i consumatori non guadagnassero. Nondimeno quel crollo, sulla cui attesa vari movimenti politici di opposizione basarono le proprie strategie, fu evitato, grazie al fatto che ai salariati subentrarono gli stipendiati: i servizi amministrativi, gestionali, finanziari, assicurativi, commerciali, formativi, sanitari, d’intrattenimento, di consulenza, e così via, andarono crescendo, fino a coprire oggi quasi il 65% del PIL a livello mondiale e a sfiorare l’80% negli Stati Uniti [2]. Il capitalismo venne salvato dall’ascesa del settore terziario e della classe media.
Ebbene, si chiede Collins, davanti a una nuova ondata tecnologica di espulsione del lavoro, può succedere ancora che si formino un settore e una classe capaci di assorbire il trauma? Egli individua cinque meccanismi (o “vie di fuga”) grazie ai quali la domanda di lavoro per la classe media potrebbe formarsi, sostenendo che essi sono ormai tutti inceppati. Il primo e più importante meccanismo riguarda il sorgere di occasioni lavorative. È successo molte volte che allo svanire di impieghi in taluni settori sia corrisposta la nascita, perfino in maggiore quantità, di mansioni in altri settori economici. Anche oggi possiamo enumerare nuove attività quali software design, website construction, work-from-home online informational e consulting services.
Esse non riescono però a creare tanti posti quanti quelli che si perdono. Ciò accade perché, mentre nel capitalismo del XIX e XX secolo le macchine meccaniche erano strumenti per incrementare la produttività dei lavoratori, nel XXI l’automazione trasforma le macchine elettroniche in lavoratori [3]. Ed è una trasformazione che abbraccia non soltanto le mansioni routinarie, ma che pure si sta espandendo a quelle intellettualmente più qualificate, provocando una crescente disoccupazione strutturale, che lascia fuori soltanto i servizi alla persona, in basso, e i compiti di alta creatività e il top management, in alto [4].
Come documenta per gli Stati Uniti un’autorevole ricerca del 2017 di Daron Acemoglu e Pascual Restrepo, esiste un forte impatto negativo dei robot sull’occupazione e sui salari: tra il 1990 e il 2007, l’aggiunta di ogni robot nel settore manifatturiero ha comportato la perdita media di 6,2 posti di lavoro; l’effetto positivo su altre attività e settori non direttamente interessati dall’innovazione è stato invece estremamente debole [5]. Il trend è eloquente: «se prima licenziavano le aziende in crisi, ora sono proprio quelle di maggior successo che possono sostituire più manodopera investendo in nuove tecnologie, con il triplice vantaggio di incrementare la produttività, risparmiare sui salari e far salire le proprie quotazioni in borsa, dal momento che il valore delle azioni sale quando un’impresa licenzia» [6].
Inoltre, il processo della scomparsa dei posti di lavoro per la classe media non è attenuato dal moltiplicarsi di lavoretti precari di bassa qualità e bassa paga – essi anzi contribuiscono a far svanire la classe media – e potrebbe essere più rapido, se non incontrasse resistenze politiche (dato che, al crescere della disoccupazione, il governo perde consenso) ed economiche (dato che l’automazione è profittevole perché abbatte il costo del lavoro e la forza dei sindacati; ma, d’altro canto, i robot non consumano, e un’economia automatizzata eliminerebbe i salari, i consumatori e i mercati).
In ordine di rilevanza empirica, la successiva “via di fuga” è la spesa pubblica in occupazione e investimenti. Che lo Stato possa essere il datore di lavoro di ultima istanza, impegnato ad offrire impieghi al salario pubblico di base a tutti quelli che li chiedono, è un’idea che risale a Hyman Minsky e che un vasto pubblico televisivo ha conosciuto come pilastro del programma elettorale del protagonista di House of Cards, il Presidente americano Frank Underwood [7]. Tuttavia, «l’impiego [sarebbe] in attività ad alta intensità di manodopera che producono utilità immediatamente manifeste per la collettività, specialmente in ambiti quali l’assistenza ad anziani, bambini e malati, i miglioramenti urbani (spazi verdi, mediazione sociale, restauro di immobili, ecc.), il ripristino ambientale, le attività scolastiche e le iniziative artistiche» [8].
Queste attività contribuirebbero non al mantenimento, bensì alla scomparsa, della classe media. Inoltre, come sottolinea Collins, simili misure, ma anche quelle di investimenti pubblici, se diventassero generalizzate e durevoli, si scontrerebbero con la crisi fiscale degli Stati. Il terzo meccanismo è costituito dall’inflazione delle qualifiche formative. Ogni qualifica tende a svalutarsi quante più persone la ottengono; chi vuole conservare una data posizione sociale deve raggiungere una qualifica superiore, per ottenere la quale deve pagare di più; a sua volta, chi vuole salire socialmente deve, per raggiungere una qualifica ancora migliore, spendere ancora di più, e così via.
Questa competizione sui titoli formativi tende a dilatare il settore formativo. Tuttavia, «molte società ricche sono già vicine al limite più elevato di scolarizzazione (misurata in numero di anni) e forse anche in termini della qualità della stessa; per giunta, molti individui impiegati in lavori di servizio sono già troppo qualificati per le mansioni che svolgono» [9]. Ne segue che gli impieghi nel settore formativo che si creeranno, potranno essere tanti, ma non saranno all’altezza dei titoli e delle aspettative. Il quarto meccanismo considerato è l’allargamento geografico dei mercati. In passato la classe media era più protetta, all’interno dei confini nazionali, rispetto alla classe operaia.
Adesso non è più così: la classe media perde colpi in ogni Paese anche perché le sue attività entrano nel circuito della concorrenza planetaria, alla pari delle attività agricole o manifatturiere. Infine, la quinta “via di fuga” concerne il dilagare del capitalismo finanziario: se i membri della classe media non hanno più un lavoro adeguato, possono diventare possidenti-risparmiatori, investendo in Fondi che assicurino loro rendite tali da mantenerne la posizione sociale? No, risponde Collins, in quanto i mercati finanziari sono intrinsecamente inegualitari, e favoriscono la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi big players. Inoltre, il durevole azzeramento dei tassi d’interesse contribuisce a corrodere il tenore di vita della classe media e spinge a dirigere i risparmi verso la speculazione, con tutti i rischi del caso, oppure ad accontentarsi di una remunerazione inesistente, che alla lunga riduce il capitale.
Tiriamo le fila del ragionamento. Mentre la meccanizzazione dell’agricoltura e della manifattura ha attraversato l’intero Ottocento e tre quarti del Novecento, l’automazione del lavoro del settore terziario è iniziata nell’ultima decade dello scorso secolo e sta procedendo così velocemente che, secondo Collins, potrebbe condurre alla disoccupazione strutturale di metà della classe media entro una trentina d’anni. Se i membri di tale classe volessero comunque lavorare, avrebbero accesso principalmente ad attività inappropriate alle loro qualifiche e alle loro aspettative retributive: in breve, per trovare occupazione dovrebbero uscire dai ranghi della classe da cui provengono. Quando Marx teorizzava la fine del capitalismo, pronosticava che le forze produttive avrebbero aumentato la centralità del proletariato industriale di fabbrica, fino a renderlo di fatto padrone dei processi produttivi; e che questa classe avrebbe infine estromesso le superflue classi dominanti.
Collins rovescia lo schema marxiano. La contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione comporta che lo sviluppo della tecnologia, anziché rafforzare le classi subalterne, le stacca progressivamente dalle loro funzioni economiche. Prima i lavoratori del settore primario, poi quelli del secondario, adesso quelli del terziario, non scompaiono; ma le loro mansioni si riducono in quantità e qualità, divergendo sempre più dalle competenze e dalle attese dei membri di queste classi. Il sistema capitalistico sta volgendo verso una crisi terminale per la difficoltà di assegnare ancora una posizione alle classi sociali nella struttura economica.
Se questa prognosi si rivelerà corretta, la Sinistra dovrà ridefinire la propria strategia politica, concentrandosi non soltanto sulla disuguaglianza verticale – che misura la distanza tra ricchi e poveri – e nemmeno limitandosi ad aggiungere la disuguaglianza orizzontale – che, a livello globale, toglie ricchezza alla classe media dei Paesi ricchi, a favore della classe media di quelli emergenti. Piuttosto, essa dovrà focalizzarsi sul trend più decisivo, per il quale le classi lavoratrici stanno progressivamente perdendo la loro funzione nel sistema economico. Alle prese con questo trend, diventerà molto problematico, per il capitalismo, mantenere la propria egemonia politico-ideologica, e sarà lì che si apriranno le maggiori opportunità di trasformazione sociale.
Note

Questo articolo è stato pubblicato da quotidiano Il manifesto il 24 gennaio 2018

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