Regime estetico e tentazione dello spettacolo: osservazioni su un libro di Jacques Rancière

9 Gennaio 2018 /

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di Luca Mozzachiodi
«Che a ogni opera d’arte, a ogni epoca artistica siano intrinseche delle tendenze politiche, è – dal momento che esse sono configurazioni storiche della coscienza – una verità lapalissiana. Però, allo stesso modo in cui gli strati di roccia più profondi vengono alla luce solo nei punti di frattura, così anche la “tendenza” in quanto formazione profonda si mostra alla vista nelle fratture della storia dell’arte (e delle opere). Le rivoluzioni tecniche: ecco le fratture dello sviluppo artistico nelle quali volta a volta, allo stato libero, per così dire, si manifestano le tendenze. In ogni nuova rivoluzione tecnica, la tendenza, da elemento recondito dell’arte, diviene per sé elemento palese». [1]
Ci si chiederà perché iniziare con questa citazione da un altro testo, di Benjamin, una riflessione sul libro di Rancière recentemente uscito per Orthotes, Aisthesis. Scene del regime estetico dell’arte, la risposta è che non tanto sono analoghe le conclusioni, che potremmo sommariamente spiegare con una politicità a priori dell’avanguardia artistica in quanto essa sorge con e contro uno stato dell’arte costituito, (modelli, tradizioni, istituti, interpretazioni ma anche usi diffusi, condizioni materiali, rappresentazioni generalizzate del sistema valoriale dell’arte e della sua funzione nella vita sociale), politicità beninteso che può essere di qualsiasi segno e appartenenza e si manifesta piuttosto come una carica distruttrice e riordinatrice presente all’interno dell’opera stessa ma tesa a far agire il suo potenziale all’esterno, in quel punto in cui rapporti estetici e rapporti sociali sono in relazione, quanto l’immagine dialettica e la rappresentazione dello sviluppo della storia dell’arte.

Le quattordici scene di cui si compone Aisthesis: scene dal regime estetico dell’arte [2] costituiscono appunto altrettante linee di faglia nella storia dell’arte, momenti e temperie in cui appariva chiaramente un prima e un dopo, un nuovo e un vecchio in cui la natura stessa di quel procedere drammatizzava un conflitto tra ciò che era e ciò che sarebbe divenuto. La metafora stessa della scena, di chiaro sapore teatrale, a cui le preziose coordinate spaziotemporali premesse dall’autore a ogni capitolo fanno da quinta e insieme da fondale, e il ricorso a immagini fanno chiaramente intuire il procedere dialettico di Rancière seppure di una dialettica non classica, non scolastica né oleografica proprio perché l’attenzione è sui picchi di tensione e non sull’intero processo. Non siamo in poche parole di fronte al grande affresco dell’estetica moderna.
Percorrendo a volo d’uccello la materia del libro si vedrà come invece si tratti di un’opera a tesi: ciò che comincia con Winckelmann nella seconda metà del Settecento, con la riscoperta in sede estetica del mondo classico e si conclude con l’avvento del Kitsch è «l’idea di una nuova arte in sintonia con le vibrazioni della vita universale: un’arte capace di coniugare i ritmi accelerati dell’industria, della società e della vita urbana e, allo stesso tempo, di dare una risonanza infinita agli istanti più insulsi della vita quotidiana» [3].
Quello che risalta quindi nella disposizione è la scelta programmatica di non procedere nella dimostrazione per accostamento consequenziale di grandi autori e di posizioni topiche della storia dell’idea di arte, non è per intenderci il Winckelmann di Rancière quello della arcinota «nobile semplicità e quieta grandezza» ma quello della descrizione del Torso del Belvedere che in quegli arti tronchi legge, o può leggere, la disposizione a qualunque azione, l’idea del movimento, la significatività del gesto proprio perché il gesto come doveva essere non c’è e non ci sarà. Accanto a questa troviamo altre scene snodo, da Hegel che ricorda nell’Estetica come i mendicanti di Siviglia di Murillo rappresentino nel loro far nulla una felicità così antimoderna da essere divina, alle nuove riflessioni sul ruolo drammaturgico della luce e del corpo nel mimo parigino di fine Ottocento, alle frontiere tecnico-politiche raggiunte dai cineasti sovietici che teorizzarono il cineocchio, l’annullamento dell’uomo nella ripresa del tentativo rivoluzionario di umanizzare il mondo.
Al di là delle singole diagnosi e rappresentazioni o osservazioni critiche, ben lontane comunque dalla galleria di ritratti di grandi autori che popola le storie borghesi e accademiche, ma anzi che accosta Maeterlinck e Wagner ad anonimi recensori teatrali, Vertov al volantino dell’agit prop, Rousseau a dimenticati pamphlettisti nel dibattito artistico francese del Settecento, due sono i motori principali dell’evoluzione artistica per Rancière e sono la mutazione della rappresentabilità, figlia dell’evoluzione sociale, e la mutazione delle possibilità rappresentative prodotta dall’evoluzione tecnica cui si accennava.
Spieghiamo il senso perché non le si intenda come piatte categorie sociologico-deterministiche. La prima è la reazione al regime delle belle lettere che, nato dal Medioevo, attraverso la società feudale aveva retto i principi di un’arte estremamente codificata, una poetica come ars e coscienza del buon soggetto e che poneva, con il sistema dei generi e degli stili, al discorso artistico le rigide maglie di una società rigida. Sarà solo il romanticismo ad affermare che tutto è rappresentabile in arte, ma è solo con la nascita della città ottocentesca e di moderni rapporti di scambio e produzione, il capitalismo industriale in una parola, che la dimensione di totalità si impone come un che di inevitabile, il sistema di produzione totalizza l’immaginario prima ancora di globalizzare il mondo, figlio letterario di questa totalità è, lo sa qualsiasi studente, il romanzo.
Che vi sia una politica della rappresentazione nel romanzo, e che sia una politica interna in ragione della equivalenza di vite e di gesti rappresentati, non solo nel senso della scelta del soggetto (i bassifondi di Parigi, per intenderci, o le corti medioevali) ma anche nella possibilità del mondo di divenire parola e della parola di sostituire il mondo in eccedenza di rappresentazione, pensiamo alle pagine su Flaubert qui e in Politica della letteratura [4] a partire dalla definizione sartriana, non è un concetto nuovo in Rancière, nuovo è invece il pensiero che questo tipo di politica riguardi anche la poesia e che anzi ne sia una chiave di lettura dello sviluppo dialettico.
Giustamente il curatore insiste nella sua introduzione sulla speciale attenzione accordata a Whitman in questo libro: il poeta di Foglie d’erba è visto come il cantore della vita moderna non per il suo slancio vitalistico, né per il suo anticlassicismo, ma per la tensione alla rappresentazione totale, simultanea e catalogica di cui è esempio massimo il procedere per accumulazione in Song of myself. non è solo il fatto che si parli di fabbri, di taglialegna, di schiave, di prostitute e vetturini a dare la misura della modernità “democratica” dell’opera di Whitman, questo avveniva anche nel ben poco moderno e tutt’altro che democratico mondo di Orazio, per esempio, ma nel fatto che con una carrellata quasi cinematografica si rappresenti la simultaneità dell’avvenire nella città, l’oggetto vero non è la somma delle singole figure, ma il brulicare della vita, ogni figura è degna, ma nessuna necessaria, nessuna arte in se stessa. Cosa ben diversa dalle Mirrine, e dalle Licische che conosciamo.
Questa tensione poetica diventa però possibile e necessaria solo se pensiamo agli Stati Uniti del 1855, un paese che vive la congiunzione del mito della frontiera con il suo richiamo alla primitività e del sorgere delle metropoli sull’East Coast e nel New England senza nessun ventre a custodire negli emarginati la traccia del progresso, senza nessuna Notre Dame a vegliare e a incutere il timore e il bisogno di storicità e trascendenza, senza nessuna aristocrazia decaduta o no a ricordare che un ordine vi è stato e che erano i re a parlare in versi nei drammi mentre al popolo restava la prosa.
In questo senso il verso di Whitman può tutto e contiene idealmente tutto e per questo rompe anche la crosta della forma, diversamente invece da Baudelaire; mi si passi l’analogia ardita ma sa di potersi arricchire di mondo come il capitalista compra pezzi di prateria per la sua ferrovia o vecchie pendole per il suo soggiorno, nessun diritto stabilisce confini alla rappresentazione del myself di un americano. Per quello che riguarda le possibilità materiali, la tecnica appena intravista per quanto riguarda la poesia o il romanzo, ma capitale appena si passi alla pittura, alla scultura, al teatro o, ovviamente, al cinema occorre un ragionamento ulteriore: se la rappresentabilità o meno di un soggetto in arte e la modalità scelta sono generalmente fatti interni al pensiero dell’artista che hanno un fondamento extraletterario nella società le possibilità materiali sono piuttosto dei fatti dati esternamente che sono insieme ostacolo e elemento di direzione dell’intenzione artistica e secondo Rancière è proprio la dialettica che in questo modo si costituisce a essere il mutamento dell’arte e a imporre, come vuole Benjamin, la scelta politica.
Due esempi tratti dal libro e assai eloquenti possono essere le regie teatrali di Craig e Appia da un lato e il film La sesta parte del mondo di Vertov dall’altro: nel primo caso una serie di innovazioni nella messa in scena teatrale, a partire dall’illuminazione artificiale e dalla scenografia e dai praticabili che sostituiscono i fondali dipinti diventano l’occasione, con la nascita della regia cioè di una specifica intenzionalità drammaturgica della messa in scena, di farla finita con la centralità della trama e della rappresentazione e con l’idea del dramma ben congegnato sostituendovi un’opera in cui su ciò che accade ha il predominio ciò che si vede, o non si vede, e ciò che si sente.
Questa è una risposta tanto ai vecchi principi di corte del teatro-intrattenimento quanto alle nuove spinte democratiche che volevano non solo più popolare ma più incentrato sui nuovi soggetti sociali popolari quell’intrattenimento, è il teatro simbolista che solleva la sensazione sul sentimento e l’evocazione sulla vita.
La sesta parte del mondo è un film, ha a che fare con la nascita di quel mezzo e del pubblico di quel mezzo, per questo il suo scopo non è solo educare il pubblico, questo lo può fare qualsiasi forma d’arte, ma educarsi ad essere pubblico, dato che per la prima volta si può per ragioni tecniche rappresentare il movimento e lo sguardo senza che siano azioni, come era invece nel teatro. Il cineocchio di Vertov non è lo sguardo del regista (pensiamo all’Appia demiurgico che crea davanti agli occhi del pubblico la sua Tetralogia), ma è lo sguardo delle cose sulle cose, l’oggettività, o sugli uomini come i contadini delle pianure russe e kazake ai quali si mostra la cinepresa ma che vengono ripresi solo quando non la guardano nel loro normale agire.
La politicità in senso rivoluzionario di questa scelta oggettivista sta nella sostanziale eguaglianza degli sguardi tra regista e pubblico, tra macchina e uomo; non solo tutto è rappresentabile, ma tutto si rappresenta da sé senza intermediari se non il cineocchio e i proletari russi devono sapere che la sesta parte del mondo appartiene a loro non perché camminino orgogliosi a un palmo da terra, ma perché questo è un fatto (di qui la minuzia nelle riprese dei molti e diversi spazi delle regioni della Russia Sovietica), come si deve sapere che l’erba è verde e la terra rotonda. È l’idea di eguaglianza in una gerarchia formale interna alla percezione dell’opera d’arte e alla conoscenza, un’idea di eguaglianza formale che però solo un’idea di eguaglianza politica poteva produrre: bisognava sapere che ogni uomo era un uomo per poter riprendere ogni albero come albero.
Tutto meraviglioso fin qui verrebbe da dire, ma il procedere della storia non è mai così lineare e Rancière lo sa chiudendo il libro sulla fine di questa arte moderna con la sua dissoluzione e per opera della spinta centrifuga del Kitsh e per quella centripeta del modernismo che potremmo leggere come spinte alla democraticità e selettività sia della produzione che del consumo di arte; Eliot da una parte, i portachiavi di plastica dall’altra e la verità è che il più umano è il meno democratico, il più violento e il più discriminatorio dei due poli.
Noi proviamo a trarre qualche conseguenza dal suo ragionamento non con la pretesa di aggiungere al libro, perfettamente compiuto nel suo proposito, ma consci che una riflessione che si limiti al libro letto non merita il gesto di aver letto un libro: se ogni soggetto è rappresentabile in termini di uguale dignità tutti possono non esserlo, se ogni oggetto artistico è tecnicamente producibile è anche riproducibile. Come reagiamo noi a un mondo in cui ogni vita potrebbe finire in un romanzo e quindi nessuna vita è degna di essere narrata, rilevante, universalizzabile? Cosa facciamo se migliaia di minuscole Monna Lisa pendono da ogni bancarella?
Parte della risposta, la parte che possiamo dare qui, risiede nella sterminata messe di raccolte di poesia che ogni anno si scrivono, nelle serie sempre crescenti di romanzi nei cassetti, nella biografia che ogni uomo pare voler scrivere (anche con la pura scrittura dell’azione) come nelle performance, nelle improvvisazioni, nelle trasmissioni live, nelle mostre in streaming. Tutto diventa spettacolo fatto scenico, unico, privato e inimitabile e al tempo stesso continuamente pubblico: la pagina privata di facebook che ci domanda in un contesto esclusivo e mondiale insieme che cosa stiamo pensando.
Più nessuna vita è degna di essere oggetto di scrittura letteraria più noi facciamo ricorso alla specificità del letterario per dare dignità al vissuto in una continua esibizione del proprio romanzo interiore che prende la forma del flusso-scroll sul blog o anche del libro, più ogni opera e esperienza artistica può essere riprodotta on demand più noi cerchiamo di privilegiare la dimensione dell’evento, la performance sul copione, la presentazione sulla lettura, ciò che è solo qui e adesso perché in qui e adesso risiede la percezione e quindi la specificità dell’estetica.
Si tratta insieme sia di una tensione, di un mutamento generale dei modi di darsi dell’arte, sia di una tentazione, qualcosa cioè in cui cadiamo per bisogno e coazione, per necessità di sopravvivenza. Non è una lode dei tempi andati se dico che proprio perché l’arte ha potuto e può dire tutto così spesso ci appare appesa al colpo di tosse di qualche tizio in terza fila.
Note

  • [1] Walter Benjamin, Replica a Oscar A. H. Schmitz in Aurora e Choc. Saggi sulla teoria dei media, Torino, Einaudi, 2012 pp. 261-262
  • [2] Jacques Rancière, Aisthesis: scene dal regime estetico dell’arte, Salerno, Orthotes 2017
  • [3] Ivi, pp. 300-301
  • [4] Politica della letteratura, Palermo, Sellerio, 2010 pp. 55-76

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