di Vincenzo Vita
È stato presentato al Palazzo delle Esposizioni di Roma il 13mo rapporto annuale (2017) di Federculture, l’associazione che raggruppa 140 imprese e istituzioni culturali sotto la presidenza di Andrea Cancellato (Triennale di Milano) e la direzione operativa di Claudio Bocci. Ha chiuso i lavori il ministro Dario Franceschini, in apparenza neppure troppo turbato dai magri risultati del voto siciliano. E già, perché – con qualche eccesso di zelo di taluni intervenuti – si è alzato un coro laudatorio nei riguardi del Mibact e del suo alfiere.
Senza nulla togliere a un dicastero che, dopo i recenti predecessori, non poteva che andare meglio, è proprio l’accurato testo di Federculture (presentato dall’introduzione di Bocci) a raccontarci una verità diversa, più mossa. È vero che la spesa in cultura delle famiglie è aumentata del 7% nell’ultimo triennio, con un surplus rispetto al resto della filiera dei consumi, è reale l’incremento di numerosi voci del mosaico come il +22% nella fruizione del patrimonio culturale, è indubbio l’impulso dato ad interessanti novità come l’Art bonus, e tuttavia il quadro è assai contraddittorio.
Intanto, si legge poco: solo il 40,5% degli italiani dà un’occhiata ad almeno un libro all’anno, in decrescita persino rispetto al 46,8% del 2010. Non solo. Il 37,4% delle persone non svolge alcuna attività di tipo culturale, misura che va oltre il 50% negli strati a basso reddito. Anzi. Ben il 70% ha una debole o debolissima partecipazione. Mentre l’area «alta» è del 28,8%.
Viene un brivido a leggere la mole delle cifre del Rapporto ed è immediata l’associazione con l’astensionismo politico. È lecito tracciare una linea di congiunzione tra i due astensionismi, che si specchiano e si alimentano vicendevolmente. Se, poi, si connettono simili «tracce» con l’eterna arretratezza nell’infosfera digitale, nell’uso di Internet o nella diffusione dei giornali quotidiani, la situazione appare tutt’altro che felice.
Insomma, sotto il tappeto delle dichiarazioni propagandistiche c’è un Sud della cultura più ampio e diffuso di quello geografico. Cui non bastano le pur prestigiose assegnazioni delle «città della cultura» del continente o della nazione: Matera e Palermo. Insomma, c’è davvero molto da ri-fare. Oggi, non attraverso affidamenti al governo (quale, poi, dopo le ormai prossime elezioni?) che a fine legislatura sono poco più che norme-spot.
È in dirittura di arrivo ad esempio – in terza lettura alla Camera dei deputati – il disegno di legge n.4652, ovvero la «Delega al governo per il codice dello spettacolo». Nell’articolato vi sono spunti interessanti, come i benefici e incentivi fiscali previsti dall’art.5, o come l’incremento del Fondo unico per lo spettacolo (Fus), ma il cuore dell’impianto sta nell’ennesima sequenza di deleghe assegnate al potere esecutivo (art.2).
Con il solito corollario dove sguazza l’antica impronta burocratica: il consiglio superiore dello spettacolo, uffa. A che servono le deleghe (a data da destinarsi) per gli addetti di un lavoro culturale precarizzato, impoverito, schiavizzato magari con i «rimborsi degli scontrini»?
La crisi rimane nera, se non si forniscono risposte all’oltre metà di coloro che calcano le scene con emolumenti che non arrivano a 5.000 Euro all’anno. E l’altra metà vive di stenti. E con contributi previdenziali dispersi e non utilizzabili, a causa della stagionalità dei contratti, quando ci sono.
Serve un vero «Piano straordinario», con annesso «salario di dignità». Adesso, non domani. Altro che.
Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano Il manifesto il 7 novembre 2017