La Catalogna domani al voto: chi diffonde toni catastrofici in vista del referendum?

30 Settembre 2017 /

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di Maurizio Matteuzzi
L’ex-ministro socialista Josep Borrell, che si definisce “catalano, spagnolo, europeo”, dice che il voto di domenica è potenzialmente “la più grande crisi costituzionale europea dalla caduta del muro di Berlino”. Anche se non proprio la più grave, è innegabile che un eventuale secessione della Catalogna innescherebbe un effetto domino in Europa che, dopo la sorpresa Brexit e i populismi che proliferano, spaventa.
Non a caso la stampa spagnola prefigura catastrofi: dopo la Catalogna (accusata oltretutto di mire espansionistiche per allargare i suoi confini agli altri Paises Catalanes che arriverebbero addirittura fino ad Alghero) sarebbe inevitabilmente la volta degli indocili Paesi Baschi e Galizia, poi una sfilza di paesi europei che andrebbero in frantumi: Francia, Italia, Gran Bretagna, Belgio, Olanda e perfino la Svizzera con il Canton Ticino e il Giura in lista d’uscita.
A parte gli scenari apocalittici, la possibile secessione della Catalogna pone problemi reali con la sua trasversalità di posizioni. D’emblée non sembrerebbe male un bello scossone (anche) a una Spagna che non ha mai fatto i conti con il suo passato fascista e a una Unione Europea oscenamente liberal-liberista. Però è vero che anche buona o gran parte degli indipendentisti catalani sono liberal-liberisti…

D’emblée suona bene la possibile Repubblica di Catalogna: potrebbe essere un campanello d’allarme per quei parassiti dei Borbone, franchisti, ladri e (almeno il padre) puttanieri, intaccando uno dei tabù della transizione – l’intangibilità della monarchia e dei due partiti chiamati a farle da cane da guardia: il PP e il PSOE.
D’emblée sarebbe bello che una transizione celebrata come un modello e la costituzione del 1978 vista come il libro sacro e intoccabile della democrazia (ma fu toccata in quattro e quattr’otto nel 2011 col voto congiunto PP-PSOE per inserirvi la priorità del pagamento del debito pubblico) comincino finalmente a cadere in pezzi mostrando quello che sono: il prodotto greve di un passaggio forzato in cui l’antifascismo in cenere dovette rassegnarsi a consacrare le nefandezze del franchismo, a cominciare dall’infame binomio “amnesia-amnistia”. Però non è affatto detto che la mobilitazione democratica della Catalogna sia l’inizio della fine della transizione e porti a una modifica sostanziale della costituzione del ’78 che riconosca il carattere “plurinazionale” di popoli e regioni di Spagna in un format federale o confederale dello stato: nel caso Rajoy dovesse vincere la partita con la Catalogna potrebbe ritrovare quella legittimazione che non ha per la caterva di corruzione che schiaccia il suo partito ma che si deve all’uomo che ha salvato la Spagna “unita e indivisibile”.
Questa guerra Spagna-Catalogna forse poteva essere evitata. Nel 2006 il vituperato premier socialista Zapatero concordò un nuovo statuto in cui si ampliavano i diritti e si riconosceva la Catalogna come una “nazione”. Ma Rajoy, dall’opposizione, fece ricorso al Tribunale Costituzionale che nel 2010 sentenziò che buona parte dello statuto era da buttare, dopo che le Cortes di Madrid, il Parlament di Barcellona e un referendum in Catalogna l’avevano approvato…
Da lì il venticello secessionista-indipendentista, che tutto sommato era tenuto sotto controllo, si è fatto più forte fino a diventare un uragano. Colpa soprattutto di Rajoy che alle istanze catalane ha risposto sempre e solo con una raffica ottusa di no.
Ma forse i due fronti ritengono che la radicalizzazione-polarizzazione convenga a entrambi. Agli indipendentisti catalani non dispiacerebbe forse che la Guardia Civil impedisse con la forza il voto di domani o che Puigdemont fosse arrestato dalle forze “spagnole”, agli unionisti “madrileni” un qualche scoppio di violenza alla vigilia del referendum (finora la situazione, ancorché incandescente, è sempre rimasta pacifica) potrebbe forse far comodo per dimostrare l’impossibilità della trattativa.
D’emblée, come dice il cantautore catalano Joan Manuel Serrat, “indipendenza è una parola bella che infiamma i cuori dei giovani e mobilita la gente”. Però bisogna anche dire perché e per chi si vuole l’indipendenza: di sicuro non per perpetuare le politiche della destra liberal-liberista catalana, uguale alla destra liberal-liberista spagnola (austerità, tagli, precarietà…).
Domani si capirà qualcosa di più. A parte ogni altra considerazione, sarebbe però una fantastica nemesi storica se fosse proprio Mariano Rajoy, l’erede della Spagna “una, grande y libre” di Franco, a dover gestire il distacco della “repubblica catalana” ribelle.

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