Italia e Germania: storie parallele, verso quale futuro?

18 Settembre 2017 /

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di Susanna Böhme-Kuby
A un mese dalle elezioni parlamentari tedesche anche nella stampa italiana (p.es. l’Espresso 35/2017) si parla già di una “beatificazione” della Cancelliera Merkel ripetendo il cliché, caro alle destre, di un suo presunto “spostamento a sinistra” – dall’accoglienza dei migranti nel 2015 alle recenti riforme civiche. Eppure non si tratta d’altro che dell’abile pragmatismo conservatore della cancelliera che riesce spesso a cogliere delle tematiche nell’aria facendole sue, smontandole e rendendo obsolete le rispettive richieste politiche dell’ opposizione. Questo è una prassi conservatrice collaudata in Germania, basti ricordare le riforme di welfare ante litteram di un Bismarck, che introdusse nell’ Ottocento di fronte alla temuta avanzata della SPD già una prima previdenza sociale o del Cancelliere Adenauer, che varò nel lontano 1957 un consistente aumento delle magre pensioni di vecchiaia e il loro aggancio dinamico ai salari, assicurando con ciò la maggioranza assoluta alla sua CDU nelle elezioni successive.
Secondo tutte le previsioni la cancelliera seguirà dunque i suoi predecessori Kohl e Adenauer ponendosi per un quarto mandato alla guida del governo della Bundesrepublik, più che altro per la non-esistenza di una vera alternativa politica, ritornello ripetuto da anni dalla stessa Merkel. «Keine Experimente» (nessun esperimento): in Germania vince ancora quella vecchia massima della CDU, anni ’60, contro cui la SPD già allora seppe contrapporre solo un timido: «Osare più democrazia!» (“Mehr Demokratie wagen”.)

Eppure in Italia non ci si stanca di ammirare proprio quella stabilità politica tedesca contrapponendola alla deplorata instabilità italiana. Il che corrisponde alla realtà solo se si confrontano i numeri dei rispettivi governi nel dopoguerra, ma non la persistenza del blocco sociale ed economico al potere nei due paesi. Qui l’Italia potrebbe vantare addirittura una stabilità maggiore, dovuta ad un vero e proprio blocco del sistema delle forze al potere, non avendo mai permesso al maggior partito di opposizione di arrivare alla guida del governo. Solo dopo la fine dell’URSS, il conseguente scioglimento del PCI e la esplicita svolta della sua reincarnazione nel PD verso posizioni neoliberiste, questa ex-sinistra ha potuto – sempre per breve tempo e in coalizioni con varie forze del centro politico – assumere la guida del paese, per lo più per compiere le impopolari, ma decisive scelte europeiste come l’entrata nell’Euro e varie misure di deregolarizzazione economico-sociale. E lo stesso blocco sociale (nonostante le seguenti fantasiose denominazioni delle vecchie forze politiche in campo) dovrebbe continuare a guidare il Belpaese anche dopo le elezioni politiche del 2018, almeno secondo gli auspici di Berlino e Bruxelles, magari addirittura con una Grosse Koalition alla tedesca, tra una ri-berlusconizzata FI e il residuale PD.
Intanto la Grosse Koalition incombe ancora sulla Germania, nonostante essa in tre legislature abbia portato il partner minore, l’ SPD, ad un declino che pare ormai inarrestabile. Lo stesso sfidante attuale, Martin Schulz, estratto ex novo dal cappello elettorale come un coniglio bianco, non è riuscito a smarcarsi da una impostazione politica troppo vicina a quella della cancelliera in carica. Dopo l’ unico duello televisivo tra i due, percepito piuttosto come un “duetto”, Schulz viene anche giá visto come possibile futuro vicecancelliere e ministro degli esteri. Anche in Germania – dove i partiti postbellici non hanno subito la Caporetto dei partiti italiani – le elezioni del parlamento federale si sono ormai da anni trasformate in confronti tra i singoli leader, ai quali gli elettori si sottomettono per lo più come sudditi. Ma la disaffezione ai partiti tradizionali si manifesta anche lì sia nell’astensionismo crescente, sia nella proliferazione di partiti minuscoli: nelle elezioni del prossimo 24 settembre gli elettori possono scegliere tra ben 21 liste diverse.
Rispetto alle elezioni del 2005 e del 2013 anche in Germania la prospettiva politica si è ulteriormente spostata a destra. Allora gli elettori si erano espressi ancora in maggioranza numerica proporzionale per i partiti a sinistra della Cdu/ Csu, ovvero per Spd/Linke / Grüne – una coalizione politica tuttora irrealizzabile tra queste forze – sicché di fatto la Merkel fu “senza alternativa” già allora. Ma questa volta la sinistra è fuori gioco dall’inizio e la questione di un’alternativa politica non si pone affatto (avendo Martin Schulz escluso dall’inizio una coalizione con la Linke). Decisivi per eventuali nuove prospettive di coalizione della Cdu/Csu saranno dunque i voti a favore dei partiti minori, che figurano ciascuno intorno al 10%, in prima linea i Verdi e di nuovo i liberali della FDP, risuscitati grazie ad un nuovo leader yuppi, oltre alla Linke e all’ AfD, fuori dall’orbita di governo.
La crescente protesta sociale dei tedeschi non ha rafforzato la sinistra della Linke, ma si è raccolta negli ultimi anni intorno ad una destra, che si autoproclama abilmente come unica “Alternativa per la Germania “(Afd). L’ affermazione di questo nuovo partito xenofobo, composto da varie anime più o meno estremiste, compresi elementi ex-democristiani e neo-nazisti, costituisce una preoccupante novità nel panorama politico. Per lunghi decenni la Cdu/Csu si era sempre vantato di aver tenuto fuori dalla sfera del governo federale i partiti “a destra della Csu”, soprattutto i neonazisti dellla Npd e dei Republikaner, che non avevano mai oltrepassato l’ambito regionale.
Al riguardo è diffusa l’opinione chela svolta a destra sarebbe una conseguenza della politica generosa di Mutti Merkel verso i profughi, che in verità non sarebbero poi così benvoluti dal paese profondo, come voleva farsi credere. Con ciò non si mette in conto la crescita dei movimenti di destra già ben prima dell’estate del 2015, in seguito al crescente disagio sociale nei Länder perdenti (ad est come ad ovest) nella riconversione economica della Germania dopo l’affrettata riunificazione nazionale. Una tematica che la politica ha rimosso ormai da un quarto di secolo.
La Germania, il paese più ricco d’Europa, è storicamente connotata da una grande diseguaglianza economica, caratteristica rafforzata dalla riforma monetaria del 1948, attuata nelle zone occidentali sotto controllo degli alleati a guida USA, che anticipò la successiva divisione nazionale. Ma nella Repubblica federale il divario sociale venne mitigato negli anni della ricostruzione postbellica e del boom economico da strumenti di welfare crescenti. Un complesso sistema di sussidi sociali e di disoccupazione, smantellato dopo il 2000, ovvero razionalizzato secondo le direttive neoliberiste della Agenda 2010, aveva ancora tenuti a bada i milioni di disoccupati degli anni Settanta e Ottanta. La cosiddetta riunificazione aveva poi risollevata la bassa congiuntura economica e portato anche ad una profonda “riforma” sia delle condizioni di lavoro che del welfare unificato, ad opera della Spd del Cancelliere Schröder (2001/04). Fu l’inizio del lento declino politico alla Spd. Queste cosiddette riforme Hartz hanno precarizzato il lavoro e imposto ai disoccupati e ai lavoratori poveri (working poor) un rigidissimo controllo burocratico e sociale, difficilmente pensabile e ancor meno imponibile in paesi con strutture statali meno forti ed efficenti. Eppure proprio a questo “modello tedesco” dovrebbero ispirarsi anche gli stati più deboli economicamente, secondo il volere del governo di Berlino. Questo intende Angela Merkel quando parla dei “compiti a casa” (Hausaufgaben) per l’Europa, al momento è la Francia di Macron a provarci ancora.
E non mancano i tentativi di “riforma” neanche in Italia -da tempo nel mirino sono p.es. le pensioni italiane finora ancora “più ricche” percentualmente rispetto a quelle tedesche, che corrispondono ormai solo più al 47% dell’importo dell’ultimo stipendio (2016), con tendenza al ribasso. Ma in Germania esse vengono integrate, almeno per i più fortunati, da diverse forme pensionistiche aziendali o private, quasi inesistenti in Italia. Prove evidenti dell’ inadeguatezza assoluta al bisogno reale delle nuove proposte di welfare in Italia sono anche i recenti progetti della REI, ovvero del magro sussidio previsto per appena un quarto dei milioni di poveri. In un’ Italia deindustrializzata con milioni di disoccupati e senza massicci investimenti pubblici e privati per una riconversione dell’economia mancano i soldi per garantire la sopravvivenza a tutti, a meno che non si invertono i meccanismi di fondo che sorreggono l’economia europea. Ma di questo non si parla, non si discute nei comizi elettorali. E nei programmi dei partiti dominanti mancano – in Germania come in Italia – proprio delle visioni ampie per un futuro che possa affrontare in modo diverso le grandi contraddizioni e i compiti urgenti del nostro tempo.
Che cosa allora si dovrà aspettare domani un qualunque nuovo governo italiano da un reiterato governo della grande finanza tedesca a guida Merkel, con o senza Schäuble, ma con un probabile nuovo presidente della Bce (dal 2019) di cognome Weidmann? E chi dirigererà il nuovo ministero delle finanze europee appena propagandato dal Presidente Juncker?
Questo articolo è stato pubblicato da Eddyburg.it il 14 settembre 2017

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