"Solo sugli uomini affratellati dall'amore potrà risplendere il sole della giustizia"

12 Agosto 2017 /

Condividi su


di Sergio Sinigaglia
I nostri territori sono depositari di storie spesso dimenticate o rimosse. Vicende apparentemente marginali viceversa emblematiche dell’epoca durante la quale sono accadute. Questi luoghi si caratterizzano come “microcosmi”, per dirla con Claudio Magris, che vent’anni fa ci propose un viaggio in angoli depositari di eventi scivolati nell’oblio (“Microcosmi”, Ed. Garzanti).
La storia che vi stiamo per raccontare rientra a tutti gli effetti in questa tipologia. A farla emergere dalle nebbie della storia è stato un incontro fortuito che ha visto protagonista il senigalliese Francesco Fanesi. Da anni impegnato nel circuito dei centri sociali e dei movimenti di base, Fanesi è appassionato di storia ( e storie) anche perché a suo tempo ha conseguito la laurea in questo ambito accademico.
Nel gennaio del 2015 durante una visita al cimitero delle Grazie di Senigallia, nota una tomba che si contraddistingue dalle altre: non più alta di trenta centimetri dal suolo, ha quattro colonnine tortili sistemate alle quattro estremità che delimitano un piccolo recinto a protezione, all’interno una lapide senza simboli religiosi, ma contrassegnata da un sole, simile a quello socialista “dell’avvenir” e sotto si può leggere “Gervasi Pietro n.11 agosto 1856 m. 13 gennaio 1907 riunito all’adorato figlio Aldo nato a Senigallia il 27 dicembre 1886 strappato violentemente all’affetto dei suoi il 21 agosto 1910/ ammonisce che l’odio fra i lavoratori semina morte, che solo su gli uomini affratellati dall’amore potrà risplendere il sole della giustizia”.

Colpito dalla lapide decide di capire cosa ci sia dietro. Non trovando riscontro su internet, si rivolge a Carlo Giacomini vicedirettore dell’Archivio di Stato di Ancona, e in poco tempo scopre che Aldo Gervasi aveva 23 anni, era un facchino di Senigallia e il 20 agosto del 1910 rimase ucciso con un colpo di rivoltella in seguito ad uno scontro che vide contrapposti un gruppo di operai del locale zuccherificio e i facchini che prestavano lavoro come esterni nello stesso stabilimento. Questi primi riscontri incuriosiscono ancora di più Fanesi che decide di approfondire le ricerche.
Ed è così che dopo due anni il tutto diventa un libro, “Zucchero amaro” (ed. Ventura pag.92 euro dieci). Il contesto in cui di svolge la storia è quello di inizio Novecento, quando il movimento operaio muove i primi massi, supportato da anarchici, socialisti e repubblicani. Nel 1911 Senigallia ha 5420 abitanti collocati nella città vecchia, ai quali si aggiungono i 3653 del suburbio e a completare 14797 cittadini delle frazioni, per un totale di 23.853 persone. L’economia è ancora prettamente agricola, anche se esiste già uno stabilimento balneare, che già prefigura la vocazione turistica che si affermerà prepotentemente nei decenni successivi, fino ai giorni odierni.
Sul piano industriale le realtà presenti sono tre: lo zuccherificio, protagonista della nostra storia, fondato nel 1885, un cementificio del 1907 e una filanda. Il primo occupa 150 operai e nasce quando la Società Lombardo Ligure propone all’amministrazione comunale di aprire la fabbrica per la raffinazione della barbietola, promettendo di assumere 400 lavoratori più l’indotto tra cui facchini addetti al carico e allo scarico della merce. Nel 1897 nasce anche un zuccherificio che si affianca allo stabilimento sorto 12 anni prima. I rapporti tra il Comune e la proprietà però sono con il divenire degli anni, nonostante le mille agevolazioni accordate, problematici, con continui ricatti di chiusura.
Nella primavera del 1909 gli operai scendono in sciopero in solidarietà con i colleghi di Ancona e di altri parti d’Italia. L’agitazione dura alcune settimane e vi partecipano anche i 37 facchini della cooperativa esterna, cosa non scontata visto che non erano direttamente dipendenti della fabbrica. Ma la solidarietà di classe è ampiamente sentita tra questi lavoratori e non hanno indugi nell’affiancarsi agli operai. La proprietà sceglie lo scontro frontale e decide di cooptare una squadra di crumiri presa tra i facchini di Genova per spedire i diecimila quintali di zucchero che giacciono nello stabilimento. Il 19 aprile arrivano in 16 dal capoluogo ligure e nonostante la mobilitazione degli altri lavoratori le operazioni si svolgono regolarmente grazie ad un presidio di ben 1.200 militari, tra reparti di bersaglieri, fanti e cavalleria fatti arrivare anche da Ancona e Fano.
Nel giro di alcune settimane la vertenza a livello nazionale rientra e di conseguenza a Senigallia si riprende a lavorare, ma la proprietà è decisa a vendicarsi. Così poco tempo dopo dichiara la serrata e la chiusura per un anno. Di fronte alla gravità del gesto le autorità locali ( da alcuni anni si è insediata una giunta “progressista” con socialisti e repubblicani) cercano di aprire una trattativa per sbloccare la situazione. Alla fine il ricatto padronale vince e gli operai sono costretti ad accettare condizioni fortemente peggiorative. Ma a rimetterci maggiormente sono i facchini ai quali vengono imposte condizioni capestro. “Se vi va bene è così, altrimenti – dice l’amministratore – abbiamo già chi vi potrà sostituire”. Alla pesantezza del ricatto si aggiunge l’amarissima sorpresa che i loro sostituti sono tre della commissione operaia che avevano seguito la trattativa e che, facendosi beffe della solidarietà dimostrata dai facchini durante la precedente mobilitazione, decidono di vendersi al padrone e formare una squadra di facchinaggio per far fuori gli altri.
I facchini decidono di resistere, e con un volantino denunciano il tradimento effettuato dal triumvirato composto da Gaspare Crivellini, Dante Candolfi e Sante Possanzini. La diffusione del testo provoca la reazione dei tre che si rendono protagonisti di un feroce pestaggio nei confronti del leader dei facchini, Arturo Copparoni, che è anche responsabile del giornale locale La Fiaccola, il quale ha dato ampio risalto a tutta la vicenda. Di fronte alla gravità del fatto si decide di andare a scovare i tre per chiedere conto della loro azione. A guidare il gruppo di facchini, vista l’impossibilità di Copparoni è un giovane di 23 anni Aldo Gervasi. Arrivati a destinazione onde evitare che la situazione possa degenerare, mandano avanti un loro compagno con un braccio fasciato, per dimostrare che quella non vuole essere una “spedizione punitiva”. Ma la mediazione salta e si arriva allo scontro fisico, durante il quale i “traditori” tirano fuori delle rivoltelle e un proiettile calibro 9 sparato dal Possanzini colpisce il giovane Gervasi alla tempia. Portato morente all’ospedale perirà dopo pochi istanti.
Crivellini, Candoldi e Possanzini vengono immediatamente arrestati. L’eco sulla stampa è notevole, ma stranamente durerà molto poco. Un segnale emblematico di cosa accadrà al processo un anno dopo. Fanesi è riuscito a trovare traccia della sentenza nell’Archivio di Stato e sulla stampa locale dell’epoca. “Possanzini – scrive – viene condannato in maniera abbastanza misteriosa a sei mesi e dieci giorni di carcere e a lire 72 come risarcimento per le lesioni al Copparoni e per porto abusivo di rivoltella”. La cosa sconcertante è che nella sentenza scompare il reato di omicidio, né si cita la legittima difesa. A conferma anche gli altri due imputati vengono condannati alla stessa pena.
Nel giro di poco tempo con la conclusione del processo la storia viene completamente dimenticata anche dalla stampa progressista. L’unica spiegazione plausibile è per l’autore riconducibile allo “shock per una situazione che era sfuggita di mano ed era costata la vita ad un lavoratore. L’imbarazzo per tutta la vicenda che denotava la fragilità delle istituzioni popolari cittadine” e della stessa Camera del lavoro, nonché dei partito socialista. Aldo Gervasi non poteva essere un “simbolo” o un “martire” perché a ucciderlo erano stati altri lavoratori, grazie alla tela tessuta cinicamente dal padronato in nome del divide et impera. Una storia emblematica che ha una sua attualità per due motivi.
Anche oggi, come fa notare Francesco Fanesi, si cerca di mettere gli ultimi contro i penultimi, usando i migranti come capro espiatorio. Inoltre in tempi in cui il lavoro è sempre più precario e gli operai sottoposti a mille ricatti e umiliazioni, sono proprio i facchini nel settore della logistica una delle categorie più combattive lo sfruttamento dilagante. E proprio ad uno di loro è dedicato il libro: Abd lsalam Ahmed Ednaf, ucciso a Piacenza il 14 settembre del 2016 mentre difendeva i lavoratori. Un Aldo Gervasi dei nostri giorni.

Aiutaci a diffondere il giornalismo libero e indipendente.

Articoli correlati