Chi vuole fare la sinistra: un abbraccio è un abbraccio

1 Agosto 2017 /

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di Antonio Gibelli
Inutile negarlo: un abbraccio è un abbraccio, come un pacca sulla spalla è una pacca sulla spalla e un sorriso è un sorriso, specie se affettuoso e timido come quelli che sfodera di regola Giuliano Pisapia. Inutile cercare scuse del tipo: si è trattato di un gesto di cortesia, in fondo ero ospite, sono solo andato a salutarla. Niente da fare. Un abbraccio è un abbraccio, come una rosa è una rosa, né più né meno.
Almeno avesse cercato di dissimulare, come suggerisce una fine stratega, autrice del commento più sagace, una vera pietra miliare nella storia della sinistra eternamente perdente: «Non doveva essere così plateale», «bisognava farlo in modo meno entusiastico», insomma «bastava usare un poco più di discrezione». Nascondersi dietro uno stand, per esempio, e consumare in fretta. Oppure stringere la mano voltandosi dall’altra parte, come fece Letta salutando Renzi al cambio della guardia governativo.
Ma Pisapia no, non è stato abbastanza accorto, non è stato capace. Non sará mai un leader. I veri leader, se proprio necessario, lanciano l’abbraccio ma ritirano la guancia. Altrimenti «il nostro popolo», anzi non tutto, solo «un pezzo del nostro popolo», si disorienta o addirittura storce il naso. Ma come, pensa il popolo, abbracciare il nostro nemico? E contro chi allora faremo la guerra? E quando Bersani abbracciò Alfano allora? Non ci furono proteste anche allora?

Giustamente, un dirigente del nuovo movimento, un capo riconosciuto di quel pezzo di popolo disorientato, ha fatto subito una telefonata all’avvocato milanese: urge un chiarimento.
Un abbraccio è un abbraccio, sì. E una sinistra incapace è una sinistra incapace. Una sinistra che fa parlare di sé in questo modo. Che monta queste scenette demenziali. Ci sono molte cose da rimproverare a Renzi: alle solite che sanno tutti aggiungo anche il Ponte di Messina (lui che aveva lasciato sperare di essere così furbo da mangiarsi Berlusconi in un boccone) e l’elogio di Blair (il complice di una delle guerre più infami e più disastrose di tutta la storia umana). Ma quale forza attrattiva può avere, nel suo insieme, un’area dentro la quale ogni segno di comunanza è un segno di tradimento? In cui il problema è come contendersi i consensi all’interno dello stesso serbatoio che si sta prosciugando come il lago di Bracciano anziché aprire nuove strade, rompere gli steccati, cercar di capire cosa è successo che ci ha resi così passivi, così inerti, così mediocri? Cercar di capire perché Renzi ha avuto tanto successo anche se poi lo ha sperperato con un azzardo autolesionista?
Cercar di capire se in quel milione ottocentomila che ha continuato ad andare alle primarie c’è qualcuno che si salva, qualcuno con cui aprire un dialogo per tentare di uscire dal pantano, qualcuno da abbracciare (con discrezione) dicendo «amico mio, qui mi sento a casa mia»? Oppure bisogna prendere il mitra e cominciare la guerriglia, perché loro sono la vera destra, perché sono la destra mascherata, subdola, meglio la destra di Salvini e di Meloni e del redivivo, perché almeno sappiamo chi sono?
Se è così , allora diciamolo: una volta di più siamo fritti. Altro che suonare le trombe e le fanfare per la grande riscossa. Prepariamoci piuttosto alla clandestinità.
Questo articolo è stato pubblicato dal Manifesto.it il 24 luglio 2017

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