Napoli, la verità sulla morte di Ibrahim Manneh

24 Luglio 2017 /

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di Novella Formisani
È dal 10 luglio che Napoli vive una costante e crescente mobilitazione, un grido di dolore e di rabbia che stenta a raggiungere il resto del paese, silenziato dai media nazionali, perché è evidentemente intollerabile o pericoloso che anche i dannati della terra, anche gli “ultimi” di questa società, alzino la testa e chiedano diritti, giustizia, uguaglianza. Non è un paese civile quello che accetta che razzismo e malasanità possano mietere vittime impunemente. Un appello da firmare.
Ibrahim aveva 24 anni, era nato in Costa d’Avorio, cresciuto in Gambia e da 10 anni viveva in Italia. Ibrahim è morto nella notte tra il 9 e il 10 Luglio di malasanità e di razzismo. I suoi amici, i suoi familiari, i suoi compagni, non sanno ancora come sia stato possibile morire così. Eppure, ciò che ha ucciso Ibrahim non è frutto del caso: il semplice racconto delle sue ultime 24 ore di vita è esemplare dello stato attuale di questo Paese, del clima di odio e di indifferenza all’interno del quale vogliono gettarci, di un sistema ingiusto e spietato dove i diritti più elementari vengono negati.

Ibrahim se n’è andato tra sofferenze indicibili. Il suo calvario è iniziato la mattina del 9 luglio, quando ha cominciato ad accusare forti dolori addominali e si è recato all’ospedale Loreto Mare di Napoli. In Pronto Soccorso ha ricevuto una semplice iniezione e senza alcun accertamento diagnostico, senza una visita medica, è stato rimandato a casa. Immediatamente dopo essere uscito, le condizioni di Ibrahim sono peggiorate.


È rimasto nella sua abitazione tutto il giorno aspettando fiducioso che le “cure” mediche riservategli facessero effetto, allertando i suoi amici e familiari in serata, quando i dolori erano ormai insostenibili e le condizioni peggioravano sempre più chiaramente. Da questo momento in poi è iniziata una vera e propria odissea, che si concluderà con la sua morte, una lunga e cruenta storia di razzismo, pregiudizi e malasanità.
Gli amici accorsi per aiutare Ibrahim si sono rivolti insieme a lui alla prima farmacia di turno aperta nei pressi dell’abitazione, a Piazza Garibaldi. Il farmacista non ha aperto nemmeno la porta, ma rendendosi conto della gravità della situazione, ha chiamato un’autoambulanza che non è mai giunta mai sul posto. Ibrahim si è allora accasciato a terra fra atroci dolori ed i suoi amici si sono rivolti ad una pattuglia dei Carabinieri che si trovava nei paraggi chiedendo aiuto. Gli agenti in servizio gli hanno intimato semplicemente di allontanarsi, nonostante fosse palese la gravità della situazione. Riverso sulla strada, Ibrahim chiedeva aiuto.
Dell’autoambulanza, nel frattempo nessuna notizia. Dopo più di un’ora di attesa, gli amici hanno provato a portarlo in ospedale in taxi: sono giunti presso lo stazionamento più vicino, chiedendo di poter essere accompagnati e specificando più volte di poter pagare la corsa. Il tassista ha voltato loro le spalle: “non ho l’autorizzazione della Polizia”. Non poteva far niente per loro, perché per accompagnare un “negro” visibilmente in condizioni gravi in ospedale, bisogna essere autorizzati dalle forze dell’ordine!
I ragazzi si sono rivolti dunque ad una seconda farmacia e qui è stato loro suggerito di acquistare dei farmaci, in seguito alla cui assunzione Ibrahim ha cominciato anche a vomitare. A circa 1 ora e mezza dall’inizio di questo calvario saranno in tanti a sollecitare l’intervento di un’autoambulanza presso la sua abitazione. Eppure, dalla centrale operativa, la risposta era secca: non si muove un’ambulanza “per un ragazzo che vomita”, bisogna rivolgersi alla Guardia Medica, che anche in questo caso negherà la visita domiciliare, nonostante fosse stato specificato che Ibrahim non era più in grado di muoversi. Davanti a tutti questi rifiuti e al precipitare della situazione è proprio sulle sue gambe, o per meglio dire trascinato e portato a spalla dagli amici, che Ibrahim ha raggiunto la Guardia Medica di Piazza Nazionale, ormai in stato di incoscienza. Durante il tragitto, per una seconda volta, hanno incontrato una volante dei Carabinieri. Hanno chiesto nuovamente aiuto, ma ancora una volta la volante li ha evitati, rifiutando di prestare soccorso.
Raggiunta la Guardia Medica, l’operatore di turno, rendendosi conto delle gravissime condizioni in cui versava il ventiquattrenne, ha chiamato nuovamente il 118 e solo così un’ambulanza è finalmente arrivata sul posto, trasportandolo nello stesso Pronto Soccorso al quale il ragazzo si era rivolto la mattina precedente.

Alle 2.30 del mattino del 10 luglio Ibrahim giungeva in ospedale in condizioni ormai critiche. È stato trasportato in sala operatoria e da quel momento in poi nessuno, neanche il fratello, sarà più informato delle sue condizioni fino alle 11, quando ne sarà comunicata la morte.

I medici si rifiuteranno sempre, anche il giorno dopo, di parlare con i familiari. Ibrahim non è mai stato operato perché in sala operatoria è arrivato troppo tardi: è morto poco dopo l’accesso in ospedale. Eppure nessuno sa nulla di più su cosa sia successo durante quelle 10 ore.
Il cortile antistante il Pronto Soccorso, nel frattempo, si è via via riempito: i suoi familiari, un numero sempre maggiore di amici, i volontari dell’ex-OPG “Je so pazzo”, comunità presso cui il giovane prestava assistenza gratuita agli immigrati, i loro legali, sono tutti accorsi per seguire da vicino la vicenda. E sono accorse anche le forze dell’ordine, sollecitate proprio dai vertici dell’ospedale: tensioni, minacce, l’invito secco ad andarsene nonostante i familiari chiedessero semplicemente di poter vedere il corpo del ragazzo e capire cosa fosse successo, l’identificazione dell’avvocato che provava a raccogliere gli estremi per poter depositare la denuncia, un odioso rimpallo di responsabilità fra il drappello delle forze dell’ordine del nosocomio e la questura centrale, tradottosi in una perdita di tempo che ha differito il sequestro delle cartelle cliniche e del corpo, che ha dilatato i tempi di una macchinosa giustizia, peraltro già vilipesa e offesa, che è costata la vita a un ragazzo di 24 anni.
Il diritto alla salute, in questo paese, è sempre più un miraggio per una fascia di popolazione in costante aumento, quella più povera e bisognosa che non riesce a permettersi cure adeguate. Ibrahim, senza ombra di dubbio, è stato vittima di malasanità ma anche e soprattutto del razzismo più subdolo e invisibile di questa società, quello che si esercita tra le file della burocrazia e degli uffici pubblici. Perché era nero, povero, senza qualcuno che potesse garantire, intercedere, per lui. Ibrahim rischia ancora, da morto, di essere nuovamente vittima di un’ingiustizia, del tentativo di insabbiare la verità.
Scriviamo questo appello per mandare un messaggio chiaro: non possiamo far finta di niente, riteniamo sia doveroso far emergere tutta la verità sulle ultime ore di vita di Ibrahim e che venga fatta giustizia perché quanto successo non accada più.
È dal 10 luglio che Napoli vive una costante e crescente mobilitazione, un grido di dolore e di rabbia che stenta a raggiungere il resto del paese, silenziato dai media nazionali, perché è evidentemente intollerabile o pericoloso che anche i dannati della terra, anche gli “ultimi” di questa società, alzino la testa e chiedano diritti, giustizia, uguaglianza.
Dalla morte di Ibrahim tante cose sono successe: un presidio spontaneo ha animato il cortile dell’Ospedale Loreto Mare fin dalle prime ore dopo il decesso, per vigliare sulle prime fasi delle indagini e supportare amici e familiari. Un corteo di oltre 1000 persone ha affiancato le comunità migranti di Napoli e la comunità dell’ex-OPG “Je so pazzo!”, attraversando le strade della città e inchiodando la Prefettura ad una presa di responsabilità netta sulla vicenda. Alla denuncia legale è seguita la pubblicazione di questo appello pubblico, che trasformi la triste storia di Ibrahim in un momento di riflessione, di partecipazione aperta e corale da parte di tutti coloro i quali vogliano unirsi a questa battaglia di civiltà per chiedere verità e giustizia.
Ibrahim non aveva santi in paradiso ed è per questo che dobbiamo mobilitarci noi! La sua storia non fa gola, e anzi rischia di mettere in pericolo, di gettare ombre su ruoli di responsabilità e dirigenza. È difficile, ma dobbiamo provarci. Non solo perché lo dobbiamo a lui e ai suoi cari, ma perché dobbiamo pretendere che il destino che gli è toccato non colpisca più nessuno. Per farlo abbiamo bisogno della parte della società più integra e sana, quella che ancora non si sente assuefatta al generale clima di sfiducia e depressione del paese, che ha a cuore la verità, che cerca di restare umana.
Vi chiediamo di sottoscrivere questo appello.
Questo articolo è stato pubblicato da SaluteInternazionale.info il

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