Operai, trent'anni dopo

13 Giugno 2017 /

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di Sergio Sinigaglia
Nel febbraio del 1988 Gad Lerner, allora giovane, ma già affermato giornalista trentatreenne dell’Espresso, pubblicò con Feltrinelli “Operai”. Si trattava di un ricco reportage che, partendo dalla Fiat, ci accompagnava in un viaggio “dentro la classe che non c’è più”, come si poteva leggere nel sottotitolo. Un’indagine che andava “oltre l’universo metallico delle grandi fabbriche automobilistiche per raccontare la vita nei casermoni di periferia, le metamorfosi avvenute nei paesini meridionali degli emigranti (i nostri…ndr), gli operai divisi tra robot e lavoro contadino”, cioè i cosiddetti metalmezzadri, ben conosciuti per esempio nel fabrianese, dove esisteva un altro impero, molto più piccolo di quello di sua Maestà Gianni Agnelli, ma comunque significativo. Ovviamente ci riferiamo alla famiglia Merloni.
Eravamo nel pieno della restaurazione conservatrice. Tre anni prima un referendum aveva sancito la sconfitta di chi voleva abrogare il decreto di San Valentino, voluto dal governo Craxi, provvedimento che cancellava quattro punti della scala mobile. Una prima picconata ad uno strumento fondamentale di difesa delle retribuzioni. La consultazione vide una clamorosa e significativa sconfitta del PCI e delle altre forze della sinistra che volevano abrogare la norma. Una debacle emblematica dei tempi che si stavano vivendo e annunciando. Nel 1992 ci penserà il governo Amato ad abolire definitivamente la scala mobile, con il beneplacito delle organizzazioni sindacali.
Più di trent’anni dopo quei fatti e 29 anni di distanza dalla pubblicazione del libro, Gad ci ha proposto un altro viaggio nel mondo del lavoro, andato in onda in sei puntate su Rai tre. Il titolo sempre uguale “Operai”, ma il contesto proposto è alquanto modificato. In peggio.

Dai cantieri di Monfalcone ai corridoi di un grande ospedale, dai silenziosi reparti robotizzati ai cantieri edili, dalle improbabili start up, dove giovani laureati cercano di costruirsi un futuro, ai piazzali della logistica in cui lavorano decine di immigrati, fino al settore del commercio, tra gli outlet e i mega centri commerciali in cui si può ormai lavorare a Pasqua o 24 ore su 24, Lerner ci ha proposto il mercato del lavoro ai tempi del pieno dominio capitalista, anzi ai tempi del “comunismo del capitale” per dirla con un saggio uscito qualche anno fa da Christian Marazzi.
Abbiamo ascoltato le testimonianze di lavoratori e lavoratrici dalle quali emerge un quadro di sfruttamento e autosfruttamento allucinante. Donne e uomini, giovani e anziani messi al lavoro con orari dove giorno e notte si confondono stravolgendo relazioni famigliari, abitudini, tempi di vita, in uno scenario in cui il futuro è già presente. La robotizzazione dei processi produttivi propone un “capitalismo dei robot” che distrugge decine di migliaia di posti di lavoro, senza che l’innovazione possa sostituirli adeguatamente, come accaduto in altri fasi della modernizzazione industriale.
Un processo che tocca non solo i settori tradizionali, ma anche professioni un tempo ritenute al riparo da qualunque rischio. Ma tutto questo convive con una condizione di oppressione, alienazione e stress, che tutte le sei puntate hanno, appunto, evidenziato. Una condizione che l’informazione, soprattutto televisiva, nasconde, rimuove, acquiescente verso il sistema, in ottemperanza al luogo comune in base al quale parlare di operai, sfruttamento e veri e propri lavori servili è ormai fuori moda.
In realtà dall’inchiesta di Gad Lerner non solo si ha la conferma di un mercato del lavoro barbaro, selvaggio, dove in nome di una presunta flessibilità, dilaga la precarietà di massa, ma si evidenzia come la macelleria sociale oramai coinvolga categorie un tempo lontano dal rischio impoverimento. Ambiti dove termini come sciopero o manifestazione nazionale non erano presenti nel linguaggio abituale. Parliamo dei professionisti: giornalisti pagati due o tre euro al pezzo, giovani ingegneri o avvocati, tirocinanti in studi professionali, dove offrono gratis la propria prestazione, o nel migliore dei casi sono pagati con retribuzioni risicate; la shock economy sta producendo conseguenze nefaste un po’ ovunque.
Il merito di Lerner con queste sei puntate è aver sbattuto in faccia una realtà che è sotto i nostri occhi, ma ormai accettata come un fatto ineluttabile. Un caro amico che di inchieste sugli operai se ne intende mi ha fatto notare come nel viaggio a Monfalcone non si sia parlato delle morti a causa dell’amianto ( in verità è un tema che in tutto il reportage è stato trascurato). In effetti è vero, come è vero che per quanto riguarda le organizzazioni sindacali sono stati ascoltati solo i rappresentanti di Cgil, Cisl e Uil, ignorando i sindacati di base, se non ricordiamo male, ormai ampiamente presenti in non poche categorie.
Ma in definitiva nel deserto dell’informazione attuale, crediamo sia stato importante aver proposto un’inchiesta dove le miserie della condizione lavorativa sono emerse con forza, dando anche voce a chi voce non ce l’ha. E non è poco. Poi ci sarebbe da capire come uscire da questa situazione drammatica. Nell’ultima puntata si è affrontato il nodo gordiano del reddito di cittadinanza, oggi cavallo di battaglia del M5S, che ne parla senza sapere di cosa si tratta. Sicuramente una questione centrale, dove ricadono le principali contraddizioni tra capitale e lavoro, nonché la messa in discussione di una cultura lavorista per tanto tempo egemone nel movimento operaio.
Una tematica che può essere declinata in vari modi, anche dallo stesso sistema, come palliativo ed elemosina, senza mettere mano ad una radicale redistribuzione della ricchezza. Problemi fondamentali verso i quali ci sarebbe bisogno di una iniziativa politica e sociale ampia, radicale, non una sinistra latitante e buona parte del mondo sindacale complice o inadeguato.
Ma questa, apparentemente, è un’altra storia, oppure, più semplicemente, è l’altra faccia della stessa medaglia.

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