di Alfonso Gianni
I dati che ci fornisce l’Istat, relativi al mese di aprile di quest’anno, non fanno nella sostanza che precisare il quadro che emergeva da quelli che già conoscevamo tramite l’Inps. Apparentemente la disoccupazione diminuisce: ad aprile il dato dei senza lavoro scende all’11,1%, toccando il minimo dal settembre del 2012. Ma l’aumento degli occupati, sia per le donne che soprattutto per gli uomini riguarda le persone ultracinquantenni e in misura molto minore quelle comprese nella fascia d’età tra i 25 e i 34 anni, mentre si registra un calo in tutte le altre fasce d’età.
La cosa è ancora più evidente su base annua: rispetto all’aprile 2016 gli occupati dipendenti sono saliti di 277mila, ma di questi ben 225mila erano a termine. Inoltre la crescita è avvenuta tra gli ultracinquantenni (+362mila), mentre calano quelli compresi fra 35 e 49 anni (- 122mila). Se ricordiamo quello che ci aveva detto l’Inps pochi giorni fa a proposito del flop del Jobs Act, che riguarda un calo dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato del 7,4% sul primo trimestre del 2016, mentre le trasformazioni da tempo determinato a tempo indeterminato (comprese quelle per gli apprendisti) si contraggono per un meno 6,8% rispetto al 2016, possiamo trarre alcune semplici conclusioni.
L’aumento della occupazione riguarda essenzialmente gli ultracinquantenni, coloro che sono costretti a restare a lavorare a causa del prolungamento dell’età pensionabile, rappresentando tra l’altro un tappo per l’ingresso nel mondo del lavoro delle giovani generazioni. Finiti gli sgravi del Jobs Act i padroni ritornano sui loro vecchi binari, attraverso l’uso del contratto a termine liberato da ogni causale come da decreto Poletti.
La disoccupazione colpisce non solo i giovani in modo massiccio (anche Ignazio Visco nelle sue Considerazioni finali all’assemblea di Bankitalia lo riconosce ampiamente, salvo non trarne le giuste conclusioni) ma anche la fascia d’età forte (35-49 anni) del mondo del lavoro. Il calo dell’utilizzo della Cig, rilevato dall’Inps, connesso con l’incremento delle domande per disoccupazione, indicano che chi è entrato in crisi ha chiuso o prevede di non raggiungere più i precedenti livelli occupazionali. Le assunzioni a termine che dominano il mercato del lavoro sono concentrate nei settori a più bassa produttività e scarsa qualificazione, il che deprime ulteriormente il livello qualitativo del nostro sistema economico.
Si comprende quindi perché l’Italia – a differenza di altre parti d’Europa, ove qualche segnale, pur debole e contradditorio, di ripresa si può percepire – rimane al palo. Anzi affonda.
Del resto il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, considera come principali problemi del nostro paese la questione della crescita del debito e quella dei crediti deteriorati delle banche. Per sentire parlare di occupazione bisogna arrivare oltre la metà delle sue “Considerazioni finali”. Ma la ricetta che propone: un contenimento dei conti pubblici e un avanzo primario del 4% sul Pil per i prossimi dieci anni, non fa che aggravare la situazione. Rende impossibile la soluzione del problema.
Creare occupazione in una situazione nella quale il libero mercato la respinge – e lo farà sempre di più con industria 4.0, ovvero la generalizzazione dei i processi di automatizzazione e robotizzazione già ampiamente in atto, significa cambiare radicalmente la politica economica. Pensare a un piano del lavoro, legato alla cura del territorio e alla creazione di infrastrutture materiali e immateriali compatibili con il primo, che può partire in deficit e poi finanziarsi grazie al reddito e al gettito che strada facendo genera, dovrebbe essere, soprattutto al Sud, una priorità assoluta per fare ripartire l’economia.
Distribuire reddito ( in un paese ove il coefficiente di Gini ha raggiunto lo 0,40), sia con una lotta su tutti i fronti contro l’evasione fiscale, sia rivedendo a favore di una maggiore progressività delle imposte il sistema delle aliquote Irpef, sia introducendo una patrimoniale su tutte le forme di ricchezza, sia istituendo un reddito garantito che sottragga giovani e disoccupati al ricatto di un lavoro qualunque, sottopagato e privo di diritti, è un altro aspetto di una politica economica che punti ad uscire dalla crisi senza un ulteriore immiserimento delle classi medie e lavoratrici. Senza quella frammentazione e quell’irrigidimento sociale che l’ultimo rapporto annuale dell’Istat ha messo in luce. Rifare i voucher è una schiaffo alla democrazia e alla precarietà. Ci vediamo tutti in piazza il 17 giugno.
Questo articolo è stato pubblicato dal Manifesto sardo il 1 giugno 2017