di Mariuccia Salvati
Nel 2007 e nel 2010 Anna ha pubblicato due volumi antologici di suoi scritti: il primo e più corposo è Dare forma al silenzio e il secondo è Sul ricordo della Shoah. Entrambe le antologie spaziano negli anni. Dare forma al silenzio raccoglie nella prima sezione (dal titolo Saggi storici) ricerche di storia delle donne dal 1985 in poi e nella seconda (dal titolo L’altra metà della storia) scritti sulla politica delle e per le donne che vanno dal 1983 all’88.
La seconda antologia riunisce saggi pubblicati tra il 1993 e il 2006. In realtà Anna era già una storica attiva prima del 1983 (data del primo scritto ripubblicato che contiene riferimenti a esperienze antecedenti), avendo dedicato le sue prime ricerche alle riforme amministrative di Antonio Di Rudinì, al movimento contadino e al ruolo del ministro Gullo negli anni della Ricostruzione. È nei primi anni ’70 che ci siamo conosciute (io venivo da Milano) tramite l’Irsifar e siamo diventate amiche mentre collaboravamo insieme al gruppo di ricerca scientifica dell’INSMLI, già allora con competenze diverse (da quel lavoro, per intenderci, sarebbe nato il suo Il Ministro e i contadini e il mio Stato e industria nella Ricostruzione).
Nelle scelte disciplinari successive scoprimmo di essere quasi sempre divise. È di questa vitale “differenza” che vorrei parlare prendendo spunto dalle due raccolte, con l’intento non solo di rendere omaggio a Anna, ma di offrire una testimonianza sulla storiografia contemporanea, che conosce una prima cesura negli anni ’70, quando è investita da un’ondata di rinnovamento in linea con il dibattito internazionale (storia sociale, storia delle donne), ma anche dall’acuirsi, nel nostro paese più che altrove in ragione delle peculiarità del caso italiano, di contraddizioni inerenti al ruolo pubblico dello storico.
Ho il ricordo preciso di un soggiorno a Londra insieme: era la fine di agosto del 1980. Perché Londra in quel momento? Bisogna tenere presente che a Roma l’anno prima si era svolto un importante convegno internazionale di labour history presso la Fondazione Basso (dove allora io lavoravo), sostenuto dalla Maison des Sciences de l’Homme e dalla rivista “History Workshop”. In quegli stessi giorni (17-19 aprile 1979, che avevano anche coinciso, dividendo i partecipanti, con il rinvio a processo di Toni Negri da parte dei giudici di Padova) un nucleo di studiose femministe prevalentemente romane, tra cui Anna, aveva lanciato l’idea di una rivista di storia, la futura “Memoria”. I legami con il gruppo femminista di “History Workshop” (Sally Alexander, Anne Davin) si fecero più stretti: nell’agosto dell’80 era previsto un importante convegno di women’s studies a Leeds e questa fu l’occasione per ritrovarsi a Londra insieme anche con altre italiane, tra cui ricordo Paola Di Cori e Simonetta Piccone Stella. Trattandosi di Londra, la cifra prevalente del soggiorno fu l’incontro con donne provenienti da più parti del mondo, compresa in una occasione anche una donna iraniana, che, ricordo, ci parlò con circospezione, ma anche speranza della nuova situazione del suo paese (noi l’ascoltavamo pensando alla parabola di Foucault nei recenti articoli, 1978-79, sulla rivoluzione iraniana).
Anna, che proveniva dalla lunga esperienza di femminismo negli anni ’70, si muoveva con consapevolezza in quel contesto. Per me, che ne ero rimasta ai margini (lavorando, a parte la lunga ricerca per l’INSMLI, alla Fondazione Basso sulla storia del movimento operaio) quel soggiorno fu uno shock rivelatore. Le occasioni di discussione con Anna, su femminismo, su separatismo, su nuovi e vecchi temi di ricerca (ricordo che in quelle settimane tentavo di istruirmi nel campo seguendo con fatica il dibattito su Beyond the fragments), furono numerose e fonte di sofferenza per le mie incertezze. Anna aveva già fatto la sua scelta: abbandonando la storia sociale, aveva deciso di dedicarsi alla storia delle donne; le sembrava una direzione obbligata, un impegno che intendeva condurre, anzi proseguire, con lo stesso rigore scientifico appreso nel campo della storia istituzionale, proprio per non lasciare la storia delle donne alla improvvisazione e al pressapochismo (nasceva allora anche la sua amicizia con un’altra storica, come lei rigorosa, Annarita Buttafuoco). Alla British Library Anna già raccoglieva il materiale per quella che sarebbe stata poi la sua riflessione sulla tradizione suffragista (La libertà delle donne. Voci della tradizione politica suffragista, 1990): una attenta selezione di voci femminili, a partire dalle rivoluzioni settecentesche, sulla cui base illustrare il nodo del rapporto tra uguaglianza e differenza, sempre in discussione per le donne, prima e dopo la conquista del suffragio.
Le nostre strade scientifiche si dividevano: le mie ricerche sarebbero rimaste legate al Novecento italiano e a come rinnovarne la storiografia mediante l’incontro con le scienze sociali. Ma con Anna ci ritrovavamo nell’impegno in favore delle donne, del femminismo, dell’apertura dell’università ai nuovi studi e su singole battaglie politiche. Per questo ai miei occhi le due parti del volume Dare forma al silenzio non sono scindibili, perché nei miei ricordi le riflessioni della parte politica sono la premessa delle ricerche storiche e a quelle riflessioni anche i miei studi solitari di quegli anni devono molto (non a caso alcuni dei saggi di Dare forma al silenzio sono stati pubblicati in volumi a cui anche io ho collaborato).
Venendo a quest’opera vorrei fare una seconda considerazione. Mi sono convinta da qualche tempo dell’importanza oggi della forma biografica e autobiografica, che mi appare come uno dei modi per rispondere allo scarto, diffusamente sentito, tra vita politica collettiva e sentire individuale, ma anche più in generale tra politica e cultura. Non è un caso che la passione per la biografia segni non solo la generazione più giovane (autori e lettori) ma si rifletta anche sul più recente racconto storiografico. In particolare sono convinta della necessità oggi di riflettere, soprattutto da parte degli storici della nostra generazione, sugli anni Settanta, mettendo in discussione non solo la nostra professionalità ma la nostra stessa memoria biografica, in quanto storici che hanno partecipato alla vita culturale di quegli anni, che hanno condiviso delle scelte, scritto saggi di storia ma anche collaborato con associazioni, riviste, giornali.
È appunto quello che Anna fa in questo volume dove riesce a rappresentare se stessa dentro la vita culturale e politica, oltre che scientifica e accademica, del nostro paese negli ultimi trent’anni: ne risulta un percorso che è autobiografico ma insieme collettivo e che nasce idealmente nel clima ricostruito dall’ultimo dei saggi qui pubblicati nella sezione storica: Ipotesi per una storia del femminismo italiano (vi si parla appunto degli anni Settanta). Questo bel saggio funge apertamente da ponte tra la prima e la seconda parte, tra il mondo della ricerca storica nei women’s studies e quello della riflessione sul e nel femminismo. È un ponte che siamo invitati a percorrere sia in avanti che all’indietro, visto che le date si sovrappongono: l’ultimo degli interventi militanti della seconda parte è del 1988 e il primo saggio storico della prima sezione è del 1985. Pubblicato su “Rivista di storia contemporanea” (della cui direzione facevo parte) Uguali o diverse. La legislazione vittoriana sul lavoro delle donne fu allora una rivelazione, mostrando tutta la ricchezza di pensiero e le potenzialità di ricerca che i women’ studies sapevano offrire a una storia contemporanea in crisi di prospettive. Ipotesi per una storia del femminismo italiano, che chiude la prima sezione, è invece del 2005, con un salto di circa dieci anni rispetto al nucleo dei saggi storici precedenti e rappresenta, potremmo dire, l”approdo’ della riflessione ricostruita nei due percorsi del libro Dare forma al silenzio, che qui idealmente si ricongiungono. In che senso?
Come per ogni storico dell’età contemporanea che si rispetti, anche per Anna la storia si fa a partire dal presente: è alla luce delle domande dell’oggi che il percorso storico, pure quello personale, acquista senso. Così, è dall’evento recente che guardando all’indietro Anna mette in ordine dei tasselli che all’apparenza sembravano privi di un filo coerente. L’evento centrale dell’ultimo decennio è la crisi della politica e della democrazia in Italia. Vi è una parola chiave che infatti sottende tutto il lavoro di Anna, la quale coraggiosamente (mi riferisco alle mode storiografiche) riassume così nel sottotitolo il senso del suo lavoro sulle donne (sia quello scientifico che quello militante): Scritti di storia politica delle donne.
Che cosa è ‘politica’ per Anna? Direi che per lei la politica, come per Vittorio Foa, figura di intellettuale e militante politico da lei molto amato, si identifica con partecipazione, esempio, ma aggiungerei, nel caso di Anna – che è soprattutto una storica – anche responsabilità e giudizio nell’esercizio della sua professione e dunque anche verso la sua stessa ‘memoria’. A questo si aggiunga una costante attenzione a una dimensione della politica non così consueta negli studi sulle donne.
In questo libro Anna apre l’introduzione con una riflessione sul silenzio delle donne in età contemporanea, particolarmente pesante nella sfera politica, che, annota, “fu a lungo, insieme al diritto, il luogo della massima esclusione delle donne”. Una sola grande eccezione al silenzio, che contrasta clamorosamente con l’esclusione delle donne dai diritti universali alla fine del Settecento: la nascita allora di una influente letteratura femminile (ma anche il lemma letteratura sarebbe da approfondire oggi, a suo avviso, perché sempre più appare come campo nel quale si apre la possibilità di riscoprire la parola e dunque il pensiero, il ricordo, la storia). L’introduzione si chiude con il ringraziamento a due grandi storiche e amiche, Luisa Passerini e Gianna Pomata, per averla sollecitata a pubblicare questo libro. Si tratta di studiose che si sono mosse con metodologie e su terreni di indagine piuttosto diversi da quelli di Anna, ma che riconosciamo immediatamente come a lei affini. Che cosa hanno in comune? Direi, oltre alla passione per la letteratura, la spinta a ricercare la voce nascosta delle donne, una voce trovata in gesti, vite, scritti, racconti, sentimenti, apparentemente distanti dalla politica, ma che con la politica hanno invece un forte legame. O almeno dovrebbero averlo, perché non a caso è un legame che si rende visibile (come sottolinea anche Anna nel suo saggio Le donne sulla scena politica italiana agli inizi della Repubblica, del 1994) nei momenti più aspri e alti della storia: per esempio negli anni della guerra, nelle forme della “resistenza civile”, o in un antifascismo definito dalla recente storiografia “esistenziale”.
È questo il senso della storia politica delle donne che Anna rivendica per sé? Non precisamente, la sua cifra peculiare sta altrove. Sempre nell’Introduzione, a un certo punto ricorda in maniera autobiografica quel momento di scelta di cui ho parlato prima, collocandolo forse nel 1980:
“Avevo fatto fino ad allora studi di storia politica sulla classe dirigente dell’Italia liberale e poi sul rapporto nel secondo dopoguerra tra legislazione agraria e contadini meridionali (anche qui si era trattato, pensandoci adesso, di una storia di silenzio a cui dare forma). Era, quest’ultimo tema, il modo in cui, molto isolata, cercavo una risposta alla crisi della storia politica come storia dei partiti e delle élites e alle critiche e ai dibattiti sollevati dalla storia sociale, dalla microstoria, dalla storia orale: sceglievo di fare non una ‘storia dal basso’, come molti allora proponevano, ma di indagare l’intreccio tra società e istituzioni, in questo caso tra classi popolari e leggi che le riguardavano. Da questo stesso punto di vista, quando decisi di studiare la storia delle donne, intrapresi una ricerca sulle prime leggi inglesi di protezione del lavoro femminile in rapporto ai bisogni delle operaie da cui nacque il primo saggio qui pubblicato, Uguali o diverse? Fu nel corso di quel lavoro che scoprii idee e azioni politiche di donne che mi portarono poi allo studio del suffragismo” (pp. XII-XIII).
Per Anna dunque il ponte su cui avviene il transito delle donne dal silenzio alla politica è il passaggio dentro le istituzioni, è la battaglia per i diritti, è l’approdo delle donne nel diritto, non solo come soggetti di diritto al pari degli uomini, ma anche come soggetti costruttori e promotori di nuove forme del diritto. Questa è la parola chiave che connota in maniera specifica la sua battaglia nel femminismo e nella ricerca storica. È lei stessa del resto a sottolineare come il contributo della storia delle donne alla storia politica si caratterizzi per l’attenzione al tema della cittadinanza (anzi a Il dilemma della cittadinanza), dunque per la rivendicazione dell’universalità dei diritti per tutte le donne che pure ne chiedono una formulazione specificamente femminile. D’altra parte, è ancora lei a ricordare nell’introduzione (p.XVI) come questa precoce attenzione al tema dei diritti (individuali, non sociali), presente da tempo nelle donne impegnate nel campo politico, sia in contrasto con le culture politiche maggioritarie nel nostro paese.
Sempre nell’introduzione, Anna riassume i suoi saggi attorno a due nuclei tematici: il primo è quello per cui la storica Rossi-Doria è più nota: la continua necessità di ridefinire il rapporto tra uguaglianza e differenza. Mi sembra tuttavia che l’altro nodo della sua ricerca – rappresentato, nelle sue stesse parole, “dagli ostacoli frapposti all’affermazione di una individualità delle donne e, da parte loro, dei difficili sforzi per costruirla” – abbia un segno che non solo riassume le due facce del suo impegno ma che, nella crisi della politica odierna, si dimostra particolarmente fecondo e attuale. Esso si riferisce infatti a quella visione della politica come partecipazione, esempio, autonomia, o, per dirla con un termine hirschmaniano, una politica intesa come voice, protesta che si traduce in proposta, partecipazione alla polis (che è di tutti, non solo delle donne), history e non herstory: questa è credo la visione per la quale Anna si è sempre battuta e continuerà a battersi.
È qui la specificità del gesto storico e militante di Anna: la volontà di portare la voce delle donne dentro il recinto della polis, della politica e lì misurarsi con la dimensione della universalità, con tutte le sue molteplici facce. Questa battaglia assume col tempo la consapevolezza della necessità di misurarsi con i problemi della rappresentanza sul campo, sur le terrain. Lo si vede bene nei saggi militanti e nella varietà dei luoghi in cui questi interventi sono stati esposti e dibattuti: vi è nella geografia di questa breve raccolta un esempio concreto di quanto Anna ha osservato da storica in Ipotesi per una storia del neofemminismo: cioè la realtà di un femminismo che nel caso specifico italiano ha visto la sua presenza in tutte le regioni, in tutte le province, in tutte le città italiane, anche là dove le femministe si erano già formate nei gruppi della sinistra. Eppure, nonostante questa diffusione sul territorio, come ricorda Anna nelle parole di Maria Luisa Boccia, il radicamento nella coscienza delle singole donne ha potuto attingere l’universalità, ovvero “la capacità di esprimere ciò che è di una donna perché è di tutte le donne” (p. 256).
Dunque, come dicevamo, è il tema della politica, del diritto, dei rapporti tra movimenti e istituzioni, che collega idealmente il primo all’ultimo saggio storico (Ipotesi) nel volume Dare forma al silenzio e che ci consente di capire il senso di un dibattito che negli anni Ottanta si poneva la domanda se La storia delle donne può essere storia istituzionale, rispondendo affermativamente grazie al radicamento territoriale del femminismo italiano. È un filone infine che si collega nel corso di quegli stessi anni (fine Ottanta) alla più recente ondata politica della battaglia delle donne, quella che si interroga a livello internazionale su universalismo dei diritti e concrete esperienze di vita o, più latamente, sul rapporto tra diritti individuali e diritti collettivi nelle Carte dell’ONU. Il saggio del 2006, pubblicato nella prima sezione, ha per tema Diritti delle donne e diritti umani ed è stato scritto per un convegno da me curato per la Fondazione Basso sulla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.
Per certi aspetti questa riflessione riporta anche di attualità il suo volume La libertà delle donne (1990), perché quanto le donne hanno scritto e pensato per argomentare il loro diritto al voto nel corso di due secoli si presta meglio di ogni altro testo di filosofia politica a illustrare alcune antinomie di quel pensiero ancora oggi drammaticamente attuali e una in particolare: come conciliare in una società democratica di massa il difficile rispetto per i diritti individuali con la necessità di tutelare legislativamente i gruppi sociali svantaggiati? Sempre attuale è poi la dimostrazione di come le diverse culture politiche che sottendono le battaglie femministe in Italia e in Inghilterra spiegano l’ineguale accento nella legislazione dei due paesi sui diritti individuali o sui diritti sociali.
Per il tramite dei diritti umani, ci spostiamo ora sulla seconda antologia, Sul ricordo della Shoah, che si apre con un saggio, già pubblicato sulla “Rivista di storia contemporanea” del 1993, Il difficile uso della memoria ebraica: la Shoah. Possiamo dire che questo saggio rappresenti il tentativo della storica Anna di rispondere alla inattesa e drammatica ripresa dell’antisemitismo in Italia, e non solo, nell’89: decidendo di fare appello alla storia, perché, contro “gli assassini della memoria” (Vidal-Naquet), come ha scritto Yerushalmi (Riflessioni sull’oblio), la memoria non basta. Si tratta di un saggio ancora molto attuale, chiaro e intenso. A questa motivazione si collegano anche gli scritti successivi nel volume, che si interrogano sul ‘dovere della memoria’, ma anche sui rischi di istituzionalizzazione della memoria. Notiamo che si tratta di testi posteriori di un decennio rispetto al primo: nel frattempo, negli anni’90 Anna aveva pubblicato – oltre all’impegnativo saggio citato sulle donne agli inizi della Repubblica (Le donne nella scena politica) – una monografia sul voto alle donne in Italia (Diventare cittadine, 1996): è quest’ultima idealmente la prosecuzione e conclusione dei saggi sulla cittadinanza di cui abbiamo parlato, ma è dedicata alla memoria di sua madre, l’ebrea polacca Irene Nunberg, segno evidente che la passione di ricerca si stava aprendo un nuovo varco.
La cesura dell’89, l’evento rappresentato dal ritorno dell’antisemitismo in Europa e in Italia, e che coincide con la scomparsa della generazione dei sopravvissuti ai Lager, presenta alla storica Anna una nuova scelta: un dovere personale sia di memoria che di specifica ricerca storica sulla memoria della Shoah. Nel 1998 pubblica un piccolo libro dal titolo Memoria e storia: il caso della deportazione, sui tre diversi tipi di italiani deportati (internati militari, politici, ebrei) e la memoria divisa e solitaria dei 3 gruppi. Su questi argomenti Anna accumula materiale, ma pubblica poco. Per ora, notiamo, ancora non ci sono le donne, bisognerà aspettare qualche anno perché affronti il difficile (per lei) tema della memoria e della storia delle donne nella deportazione e nello sterminio nel lungo saggio Memorie di donne, pubblicato in Storia della Shoah (2006), che chiude l’antologia del 2010. È infine in un saggio recentemente pubblicato che, aprendo al futuro, si ritrovano riuniti i fili teorici delle due antologie, in una ricerca dal titolo Appunti su emancipazione ebraica e diritto alla differenza.
Prima di chiudere, vorrei almeno evocare il pensiero di Hannah Arendt, che entrambe abbiamo cominciato a leggere e meditare, ancora una volta, negli stessi anni, ma a partire da domande diverse: per me il contesto è stato lo studio storico del totalitarismo (e l’amicizia con Marina Cedronio): per Anna erano centrali le riflessioni di filosofia morale e quelle relative al ricordo e alla natura del male. Un brano in particolare mi sembra che possa aiutare a capire quanto due strade diverse possano incontrarsi presso alcune milestones comuni e ineludibili. Ha scritto Arendt nel 1965-66 (cioè pochi anni dopo il reportage da Gerusalemme sul processo Eichmann):
“La filosofia (e perfino la letteratura, come ho accennato prima) scorge solitamente nel malvagio un disperato, la cui disperazione finisce per conferirgli un tratto di nobiltà. Non arriverò al punto di negare che esistano malfattori del genere, ma sono certa che i peggiori crimini cui è dato assistere non si devono a persone capaci di guardarsi allo specchio e incapaci di dimenticare. Al contrario, i peggiori malfattori sono coloro che non ricordano, semplicemente perché non hanno mai pensato e – senza ricordi – niente e nessuno può trattenerli dal fare ciò che fanno. Per gli esseri umani, pensare a cose passate significa muoversi nella dimensione della profondità, mettere radici, acquistare stabilità, in modo tale da non essere travolti da quanto accade – dallo Zeitgeist, dalla Storia, o semplicemente dalla tentazione. Il peggior male non è dunque il male radicale, ma è un male senza radici. E proprio perché non ha radici questo male non conosce limiti. Proprio per questo, il male può raggiungere vertici impensabili, macchiando il mondo intero”.
Le radici per Arendt non sono il luogo della nascita, come volevano Maurice Barrès o Hippolyte Taine, bensì il pensiero, il ricordo, la memoria. Ma memoria vuol dire condivisione, vuol dire società, vuol dire, appunto, politica. È questo tipo di riflessione il terreno più profondo di incontro con Anna. Del resto, per quanto diviso, il mio percorso intellettuale non è stato molto diverso dal suo al quale deve molto: non è per caso che il mio Da Berlino a New York, antologia di studi sociologici sulla Germania di Weimar da parte di esuli tedeschi in America, sia pubblicato con una dedica a Anna nel 1989, anno, come si è visto, in più sensi significativo.
Ho lasciato in sospeso il racconto della nostra amicizia, perché si colloca in questa fase, il comparire a volte di un’ombra che si frappone tra noi mentre infuria, dopo la riunificazione con l’Est, il dibattito europeo sulla Shoah, su storia e memoria, su deportazione e responsabilità. Credo che, sebbene entrambe laiche, in certi momenti Anna abbia fatto comunque fatica a non pensarmi come meno coinvolta.
Abbiamo però superato quel disagio, anche perché l’inizio di una serie numerosa di lutti, la scomparsa di amici, compagni, la perdita di affetti, comuni e non, hanno contribuito col passare degli anni a renderci sempre più uguali nella memoria e a cancellare le casuali “differenze” della nostra storia.
Questo articolo è stato pubblicato da Inchiesta online il 5 aprile 2017. Per ricordare Anna Rossi-Doria recentemente scomparsa, su suggerimento di Enrico Pugliese, ecco questo testo scritto da Mariuccia Salvati per il volume edito dall’Istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla resistenza: Uguaglianze / differenze. Riflessioni per Anna Rossi-Doria, Franco Angeli, Milano 2009