di Valerio Romitelli
Da circa un anno a Bologna si è costituito il Pad (Progetto Assistenza Disoccupati), un progetto volontario e sperimentale che punta a strutturarsi più stabilmente sul territorio. Promotori ne sono, oltre la relativa associazione APAD, i servizi Nidil e Auser della CGIL, l’Associazione Includendo, un gruppo di psicologi e psicoterapeuti volontari in collaborazione con studenti e professori di Antropologia (Luca Jourdan e il sottoscritto) dell’università di Bologna (per ulteriori chiarimenti si può vedere qui).
Perché questa iniziativa? La nostra città non offre forse già sufficienti servizi e forme di assistenza per chi è in cerca di lavoro? E comunque, “qui da noi” non sono oramai certi i sintomi che fanno sperare in una prossima uscita dalla crisi in corso e dunque nella ripresa dell’occupazione? Così in effetti ragiona chi non ha diretta esperienza o non conosce da vicino l’effettiva realtà attuale della disoccupazione nel bolognese e si ostina invece a credere sempre vigente, e solo transitoriamente declinata, la proverbiale tradizione di questo territorio: quella che ne ha fatto uno spazio privilegiato di prosperità e di politiche sociali più che altrove efficienti.
Ciò che il Pad sta dimostrando è tutt’altro: che anche “qui da noi” la disoccupazione è non più un incidente di percorso di qualche sfortunato lavoratore, ma sta diventando fenomeno “strutturale” che morde, angoscia e porta al limite della sofferenza sociale una non trascurabile porzione della nostra popolazione. Il tutto accompagnato da una grave inadeguatezza dei servizi preposti a far fronte a simili problemi.
Prevedendo e auspicando che il PAD sappia andare oltre l’attuale fase di progetto volontario e sperimentale, per i suoi promotori diviene sempre più interessante prendere le misure sulle esperienze già avvenute in materia di lotta alla disoccupazione nella storia del nostro paese. L’attenzione allora non può non cadere sulla più nota e discussa di queste esperienze: quella del movimento dei disoccupati di Napoli. È di questo argomento che abbiamo chiesto di parlArci a Sergio Caserta, testimone e partecipe di questa stessa esperienza.
Per entrare subito nel merito, qual è per te la chiave di volta degli aspetti più virtuosi del movimento dei disoccupati napoletani?
A partire dalla mia esperienza personale ricorderei senz’altro la legge 285 del 1978 che dette la possibilità di costituire cooperative con agevolazioni da parte dello Stato. Essa permise una larga diffusione di esperienze di autogestione originatesi all’interno di queste organizzazioni territoriali che si chiamavano le “Leghe dei giovani disoccupati”.
Parliamo dunque della legge che conclude il suo iter di approvazione il 4 agosto 1978: fatta sotto il governo di Andreotti, quello detto di “solidarietà nazionale” o di “emergenza”, solo qualche mese dopo l’assassinio di Aldo Moro e pochi giorni dopo le dimissioni di Leone da presidente della repubblica per lo scandalo Lockheed. In effetti, si trattava di circostanze del tutto eccezionali.
Fu una legge importantissima. Dopo la crisi della metà degli anni ’70 conseguente allo choc petrolifero e nel corso di una forte recessione si dette luogo a questa legge che si chiamava di “pre-avviamento al lavoro”, grazie alla quale venivano finanziati tre anni di assunzioni al lavoro con agevolazioni fiscali molto importanti. A beneficiarne erano sia i privati, sia gli enti locali, pubblici, ma anche le forme cooperative. Si ebbe così più di un milione di nuove assunzioni al lavoro.
La disoccupazione non fu proprio risolta, ma quanto meno alleggerita. Di interventi statali così non se ne sono più ripetuti. L’aspetto più positivo di questo intervento stava nel fatto che vincolava chi usufruiva delle agevolazioni ad assumere persone a tempo indeterminato. Quindi, diciamo, si operava in un’ottica di risoluzione di lunga durata della disoccupazione. Il governo di quel tempo si chiamava anche il governo delle “astensioni”, perché l’opposizione del Pci allora si dimostrava quanto mai morbida. Comunque con questa legge si fece una delle poche cose buone della seconda metà degli anni ’70.
Venendo a Napoli e al movimento dei disoccupati…
A Napoli il problema della disoccupazione è endemico, strutturale e di massa, per cui il movimento dei disoccupati è ancora oggi articolato in tante forme organizzative. Il caso più clamoroso fu il movimento organizzato da Mimmo Pinto di Lotta Continua che divenne poi deputato nelle liste di Democrazia Proletaria. Anche se poi è finito, nel ’96, a candidarsi nella lista Pannella, Sgarbi e Forza Italia, nel ’73 si pose alla testa dell’assalto all’ufficio di collocamento che concluse uno sciopero condotto da disoccupati insieme ad altre categorie di lavoratori contro l’inefficienza del collocamento pubblico.
Partecipasti anche tu?
Allora ero all’Università. La mia partecipazione iniziò più tardi nell’ambito dell’Arci del mio quartiere. Si trattava dell’Arenella, quartiere essenzialmente piccolo-borghese, ma anch’esso pieno di disoccupati, per cui l’Arci vi aveva promosso una Lega dei disoccupati del quartiere. Per lo più giovani. Dopo tutta una serie di incontri e riunioni demmo avvio alla costituzione di una cooperativa. Ci occupavamo di servizi turistici rivolti al sociale. Partecipavamo ad appalti pubblici per portare in vacanza anziani e bambini di quartieri disagiati, sulla riviera romagnola o sulle Alpi.
In che rapporto vi ponevate rispetto al resto del movimento dei disoccupati?
La nostra è stata un’esperienza che da movimento si è trasformata in impresa, in un’impresa autogestita.
In quanti eravate?
In una ventina. Non era una cosa semplice. Dovevi organizzare i viaggi, gestire questi bambini che erano problematici: poverissimi, figli di gente in galera, senza genitori, che rubavano, affidati ai servizi sociali del Comune di Napoli. Era un lavoro a metà strada tra la militanza e il lavoro vero e proprio. Ci trovavamo a gestire strutture con tre o quattrocento persone. Abbiamo anche noleggiato una colonia e per due anni vi abbiamo portato i figli degli operai dell’Alfa Romeo. Quando la cooperativa turistica era molto cresciuta, al tempo del terremoto in Irpinia mi chiesero di andare gestire le cooperative nelle zone più sinistrate. Fu così che divenni un dirigente della Lega delle cooperative.
E il resto del movimento dei disoccupati?
Il movimento dei disoccupati aveva mille facce. La prevalenza era di origine sottoproletaria. L’organizzazione era fatta per Leghe e Liste con le quali si puntava sopratutto all’assunzione negli enti locali. Era una sorta di autorganizzazione di carattere sociale, ma anche istituzionale perché queste liste erano organizzate come se fossero state un vero e proprio ufficio di collocamento.
Come potevano funzionare in questo modo?
Organizzavano le persone sul territorio. Era obbligatorio partecipare alle manifestazioni di lotta per essere registrati nelle liste e avanzare al loro interno tramite punteggio. Proprio come se si andasse a timbrare il cartellino al collocamento. Si trattava dunque proprio di autogestione. Organizzare i disoccupati diventava esso stesso un lavoro di carattere amministrativo che richiedeva perfino requisiti imprenditoriali. Si contestava l’inefficienza del collocamento pubblico con lotte molte dure e nelle negoziazioni col Comune per le assunzioni si promuovevano le persone più solerti nelle lotte o più bisognose. “Il lavoro ci stà, ma ‘un ce o’ vonno dà!” era uno degli slogan più frequenti.
E la politica, come c’entrava?
Certo, c’era anche molta ideologia. Molti dei più impegnati venivano dai gruppi extraparlamentari. Soprattutto Lotta Continua. Ma anche il movimento dei “Banchi nuovi” che tutt’ora esiste. Poi c’erano quelli della destra che avevano atteggiamenti diciamo più corporativi, forcaioli, aggressivi, violenti. Napoli, allora, tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, era una polveriera. C’è stato il sequestro Cirillo, l’uccisione del capo della Digos Antonio Ammaturo, del giornalista Giancarlo Siani , ci sono stati molti fatti gravi, di carattere eversivo. Si è ipotizzato un accordo, un oscuro patto tra brigate rosse e camorra.
Appunto la camorra: che ruolo ha avuto nel movimento dei disoccupati?
Tra le tante liste dei disoccupati c’erano quelle di sinistra, quelle democristiane, ma anche quelle dominate della camorra. Erano per lo più liste di ex carcerati, ex detenuti. Erano migliaia per intenderci. Per sedare i tumulti di Napoli che allora registrava violenze sociali molto estese ci fu l’intervento della Magistratura, della Prefettura, del Comune e della Regione. In quel tempo Antonio Bassolino era segretario regionale del Pci. Per evitare l’esplosione di diffuse proteste sociali, fu varato un provvedimento emergenziale, un decreto ad hoc del governo centrale per alleviare le sofferenze della disoccupazione. Le liste di ex detenuti furono finanziate dal Governo per trasformarsi in cooperative per fare lavori o pseudo-lavori socialmente utili.
Sono quindi stati questi gli aspetti più negativi del movimento dei disoccupati napoletani?
L’aspetto più negativo era che veniva saltato completamente il ruolo delle istituzioni. Gli uffici di collocamento, le strutture che dovevano gestire l’offerta di lavoro erano completamente esautorati. Era tutto gestito in modo autorganizzato da queste liste che sì rivendicavano bisogni sociali, ma poi diventavano spesso forme di corporazione, sfociando in fatti di carattere clientelare, perfino direttamente gestiti dai capi zona della camorra. Questi personaggi pretendevano che venisse loro restituita come tangente una quota degli stipendi ottenuti dai disoccupati ai quali trovavano lavoro . Ciò dette luogo ad un sistema di corruzione molto forte che investì le stesse cooperative facendo scoppiare uno scandalo dalle proporzione enormi. Uno dei primi scandali che hanno investito le Lega delle cooperative a livello locale, ma anche nazionale. Parliamo infatti di centinaia e centinaia di soggetti e miliardi di lire gestiti in modo irregolare. Così veniva completamente snaturata la funzione della cooperazione.
Si arrivò anche a forme di lotte particolarmente clamorose. Ne puoi ricordare qualcuna?
La cooperative di ex detenuti, cooperative per modo di dire, erano piuttosto una magma informe di persone disposte a tutto. Quando i soldi dei finanziamenti speciali non arrivavano occupavano le sedi del Comune, dei partiti, dei sindacati e della stessa Lega delle cooperative, si sdraiavano per terra, bloccavano in traffico in tutta la città. Oppure si mettevano sui balconi e si tagliavano superficialmente la pancia con lamette, sicuri di non farsi troppo male data la loro grassezza, ma così da far gocciolare il sangue per strada, mentre minacciavano di buttarsi di sotto. Una cosa molto teatrale, apocalittica, da Grand Guignol, per richiamare la stampa.
Che bilancio fare allora dell’insieme di questo movimento tenendo conto dei suoi aspetti positivi?
Sicuramente c’è questo doppio aspetto. Da un lato, la ricerca attiva del lavoro, un protagonismo sociale che pressava le istituzioni, dall’altro, l’assistenzialismo basato anche su falsi lavori e clientelismo. Per esempio, per ripulire strade, per lavori di manutenzione straordinaria, giardini, ospedali venivano assunte persone che non erano sempre facilmente gestibili perché sottoproletari disadattati che a Napoli sono una componente anche molto aggressiva. Questo era uno degli aspetti più vistosamente deteriori in quanto si deteriorava la qualità delle prestazioni pubbliche, anche perché mancavano programmi seri di formazione e qualificazione professionale. Queste persone avrebbero dovuto essere ricostruite come lavoratori, essendo privi il più delle volte dei minimi requisiti. C’era però poi invece un fatto politico e sociale positivo: c’era una coscienza di classe, una coscienza di lotta che era anche coscienza politica che in un qualche modo ha informato queste masse, diciamo, proletarie, che le ha fatte crescere.
Questo aspetto positivo ha lasciato tracce a Napoli?
Queste liste continuano tutt’oggi ad esistere. Durano oramai da quarant’anni. È diventato un mestiere, un’organizzazione. Molte hanno fatto un’evoluzione di tipo culturale, molte includono personaggi che hanno competenze di carattere culturale e filosofico: marxisti, anticapitalisti, ma anche liberisti. È singolare che questi due aspetti, negativo e positivo, mArcino insieme. Anche i centri sociali ne sono un’articolazione, pur avendo una loro specificità molto autonoma. Del resto Napoli è la città delle mille contraddizioni.
L’imperversare del neoliberismo, la crisi, le restrizioni del welfare, insomma tutte le disastrose novità del nostro tempo, non hanno dunque fatto definitivamente piazza pulita di questa esperienza?
Oggi col blocco delle assunzioni statali il movimento è decisamente in calo, ma le manifestazioni di disoccupati a Napoli ci sono sempre. La lotta frontale tra il movimento dei disoccupati e le istituzioni non è mai finita. Anche perché, date le capacità organizzative e politiche di queste liste, del lavoro magari precario, magari occasionale, continuano trovarne. Continua la tradizione del quaderno dove si segnano le presenze alle manifestazioni. Parteciparvi è un obbligo. Questo dà luogo ad un’anzianità, dei titoli che sono poi un modo per regolamentare gli accessi al lavoro. E in ciò c’è grande rigore, grande severità.
A me pare che quella di cui ci hai parlato sia una realtà in un certo senso eguale e contraria a quella di Bologna. Qui infatti i problemi della disoccupazione sono stati sempre relativi e comunque affrontati solo per vie istituzionali, grazie alla tradizionale prosperità garantita dai buoni rapporti tra sindacati, partiti di sinistra, associazioni della industria piccola e media, Comune e così via. Una realtà certo virtuosa, ma che di fronte allo strutturarsi della disoccupazione anche nella nostra città rischia di dimostrarsi sorda ed inefficace – come testimoniano i lavoratori senza occupazione partecipanti al PAD. Per queste ragioni mi pare molto interessante ripensare all’esperienza napoletana, che invece ha avuto e ha come protagoniste autorganizzazioni dal basso, con tutti i loro pregi e difetti.
C’è comunque da riconoscere il carattere direi unico del movimento dei disoccupati a Napoli, che ha una valenza storico, politica e sociale importantissima. Ma il punto da riproporre sarebbe per me quello della Legge 285, di cui abbiamo parlato all’inizio. Lo pensano anche non pochi economisti e giuslavoristi, come Piergiovanni Alleva, che quella è stata la miglior legge per favorire lo sviluppo occupazionale nel nostro paese.