di Giulio Cavalli
Confesso che la storia di Paola Clemente è una di quelle che mi sbriciolano il cuore. Sarà che in fondo per chi come me è cresciuto nell’are metropolitana milanese la parola “bracciante” è un suono che sembra provenire da un’altra epoca, da un altro pianeta o forse sarà che immaginare una donna (madre e moglie) che si secca sotto il sole per sgonfiarsi cadavere in mezzo ai pomodori è una storia che ha dentro tutti i peli peggiori: la dignità che si fa salsa, la schiavitù come resistenza ultima alla disperazione, il lavoro quando diventa annullamento della persona e il senso del dovere che si trasforma in giogo mortale.
Paola Clemente aveva 49 anni e lavorava dalle 5.30 fino alle tre del pomeriggio, qualche volta anche alle sei, per 27 euro al giorno. Quella busta paga è una lama che affetta un Paese intero. Nemmeno tre pezzi da dieci euro per rinsecchirsi sotto il sole che sale verticale: ma come li spieghiamo questi morti ai nostri figli? Che diciamo a Stefano, suo marito, e a tutti i sopravvissuti della sua famiglia?
Oggi sono finite in carcere sei persone: tre dipendenti di un’agenzia interinale di lavoro (avvoltoi sulle costole degli sfruttati) e gli altri anelli di una catena di comando che trasforma le persone in chili di prodotto raccolto e nient’altro. Eppure sei persone, basta poco a capirlo, non possono da sole costruire una giungla che stringe la gola a pezzi interi di Paese. Mentre scriviamo la servitù bene educata continua a macinare vittime; forse non muoiono, riescono a svenire sul letto a fine giornata aggrappati all’ultimo esile respiro ma hanno addosso le stigmate dell’ingiustizia.
C’è un’ombra di giustizia, sul cadavere delle Paole che strisciano nei campi per due euro all’ora. Ma continua a essere notte sotto la calura assassina del sole.
Questo articolo è stato pubblicato da Fanpage.it il 23 febbraio 2017