di Enrico Grazzini
Occorre avviare fin da ora un ampio dibattito sulle possibili riforme della Costituzione per rinvigorire la democrazia italiana, che è gravemente malata. Non so se la nostra Costituzione sia la più bella del mondo, ma certamente è molto avanzata, preziosa, e da difendere con le unghie e con i denti dai tentativi di stravolgimento, come quello che abbiamo appena sventato. Tuttavia credo che occorra aprire una profonda discussione non solo su come attuarla – dal momento che la Carta Costituzionale, come noto, è ancora in gran parte inattuata, soprattutto per quanto riguarda gli aspetti sociali – ma anche su come aggiornarla e migliorarla in senso progressivo.
Le riforme della Costituzione dovrebbero aumentare innanzitutto la democrazia, che, lo ricordo, alla radice è niente di meno e nulla di più che il potere del popolo. Ma devono riguardare anche la sfera dell’economia. Esistono infatti pochi dubbi che democrazia e sviluppo qualitativo dell’economia siano strettamente correlati: il benessere sociale ed economico dei cittadini è strettamente collegato alla capacità di esercitare una democrazia sostanziale. Sviluppo sostenibile, democrazia economica e democrazia politica si rafforzano l’un con l’altro. Il dibattito sulle possibili riforme della Costituzione con l’obiettivo di potenziare la democrazia e lo sviluppo qualitativo dell’economia dovrebbe avere un carattere culturale, prima ancora che essere finalizzato a obiettivi politici immediati.
La discussione sulla Costituzione, ovvero sui principi fondativi della democrazia moderna, è tanto più importante e urgente considerando a) la crisi della democrazia; b) la crisi dell’euro e la possibilità molto concreta, e magari vicina, che l’euro crolli con gravi danni all’economia e alle democrazie europee: la miseria si concilia infatti difficilmente con la democrazia; c) la necessità che la sinistra e le forze progressiste tornino a ragionare sui principi fondativi della democrazia: libertà, uguaglianza, giustizia, solidarietà.
Non sono un costituzionalista né un giurista, ma vorrei offrire qui alcuni elementi di discussione per un confronto aperto su una vera riforma della Costituzione. Mi concentro prevalentemente (ma non solo) sugli aspetti di cui mi occupo da tempo, quelli relativi all’economia politica e monetaria . Mi occuperò di questioni controverse e tuttora aperte al dibattito, come: democrazia economica, proprietà e beni comuni, sovranità nazionale e sovranità monetaria, finanza e debito pubblico, contrasto dei monopoli. E anche di trattati internazionali e sistema elettorale. Vorrei che la Costituzione sancisse principi fondamentali su questi versanti, anche perché mi sembra carente a riguardo. Spero che gli spunti seguenti – in forma di bozza preliminare e del tutto embrionale – vengano ripresi anche da altri studiosi, e da chi può formularli efficacemente in termini giuridici e formali.
Perché queste proposte? Credo che le forze di opposizione debbano dibattere su questi argomenti e formulare della indicazioni di riforma, e non solo difendere (giustamente) la Costituzione. Non basta l’indispensabile posizione di tutela intransigente di questa Costituzione: occorre anche attaccare sul terreno delle riforme costituzionali. La Costituzione esistente è infatti ottima ma ovviamente perfettibile.
Bisognerebbe fare come in Islanda: dopo il fallimento della maggiore banca privata che minacciava di fare crollare l’economia del Paese, i 350 mila cittadini della piccola isola hanno deciso di riformare le leggi e la costituzione. La discussione sulla riforma costituzionale è stata preceduta da un intenso dibattito della società civile, anche grazie a una piattaforma Internet dedicata e condivisa tra forze politiche, sociali e cittadini singoli. E alla fine di questo processo deliberativo è stata approvata dal Parlamento e dai cittadini, con referendum, una Costituzione largamente condivisa.
Primo punto di modifica costituzionale: i trattati internazionali che – come quelli dell’Unione Europea e quelli che stabiliscono l’eurozona – vincolano complessivamente la politica italiana, devono essere sottoposti al voto popolare. Ritengo che in Italia occorra fare come in altri Paesi: per esempio il Trattato di Maastricht andrebbe sottoposto al voto popolare, quello del Fiscal Compact anche, ecc. Credo che già attualmente la nostra adesione all’eurozona sia incostituzionale perché la nostra partecipazione non è alla pari con gli altri stati firmatari, come invece detta la Costituzione (art. 11) . Nella UE, e in particolare nell’eurozona, siamo in posizione chiaramente subordinata.
Va invece confermata la sovranità nazionale, ovviamente non per bieco nazionalismo, ma semplicemente perché per definizione senza sovranità (che è potere decisionale) non c’è democrazia. La sovranità è condizione necessaria (ma non sufficiente) della democrazia. Non deve essere possibile che le leggi della UE e le sentenze della Corte di Giustizia Europea – organismi che nessuno ha eletto e su cui i cittadini non hanno alcun controllo – debbano essere accolti obbligatoriamente e automaticamente nel nostro ordinamento. E non è possibile che la nostra politica economica sia dettata da organi inter-governamentali mai eletti e che agiscono al di fuori di ogni controllo democratico. La nostra Costituzione esclude che i cittadini possano esprimersi direttamente sui trattati internazionali (art.75). Ma questa mi appare una norma da modificare
Secondo punto: il fatto che la Costituzione Italiana non definisca il tipo di sistema elettorale da utilizzare, come invece fanno altre Costituzioni, mi sembra una grave e pericolosa carenza, perché il sistema elettorale è il fondamento del sistema di governo e della democrazia. Le decisioni sul sistema elettorale non devono essere lasciate alla maggioranza parlamentare di turno. Il sistema elettorale deve essere chiaramente delineato dalla Costituzione.
I costituenti davano per scontato il sistema proporzionale come base necessaria per la democrazia rappresentativa e parlamentare: e il sistema proporzionale ha assicurato democrazia e sviluppo fino alla vittoria del referendum Segni, nel giugno ’91. Bisognerebbe tornare alle origini. Anche oggi la Costituzione dovrebbe prevedere il sistema proporzionale come sistema elettorale principe: un uomo, un voto; e, soprattutto, il voto di ogni cittadino deve essere, in linea di principio, uguale a quello di ogni altro. Questo è un principio elementare di democrazia. È noto invece che tutti i sistemi maggioritari attribuiscono al voto dei vincenti un peso preponderante, e a quello dei perdenti un peso sproporzionatamente minore.
Questo in nome della governabilità: ma la governabilità non deve essere precostituita e imposta con marchingegni elettorali che tradiscono la volontà degli elettori. La governabilità può derivare solo da un programma efficace e condiviso: è un risultato politico e non puramente elettorale, un risultato che può scaturire dagli accordi tra forze politiche che magari rappresentano diversi interessi, ma che trovano sufficiente omogeneità di programma. Questa è la democrazia. Tuttavia correttivi minori alla proporzionalità assoluta – per esempio: una barriera per le formazioni minuscole – possono essere definiti per via Costituzionale o anche per legge ordinaria senza intaccare il principio basilare: ogni cittadino, avendo uguali doveri e diritti, deve potere esprimere un voto che pesa nella stessa misura degli altri.
Terzo punto: deve essere esplicitato che lo stato promuove uno sviluppo socialmente ed ecologicamente sostenibile, promuove con ogni mezzo la piena occupazione e la riduzione delle diseguaglianze sociali. A tal fine lo stato deve potere utilizzare tutti gli strumenti disponibili di politica monetaria, politica fiscale, politica industriale e politica sociale. La finanza è regolamentata dalle leggi al fine di servire lo sviluppo socialmente e ecologicamente sostenibile, di tutelare il risparmio, sostenere gli investimenti produttivi e i consumi, e contrastare invece le attività speculative dannose per l’economia reale. Lo stato interviene direttamente nel settore finanziario anche con banche pubbliche commerciali e di sviluppo, e incoraggia la formazione di banche cooperative e territoriali.
Quarto punto: la Costituzione deve prevedere l’introduzione di forme estese di democrazia economica. Deve essere stabilito chiaramente che l’economia non può essere un territorio franco e libero dalle regole della democrazia. La partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’economia e delle aziende pubbliche e private – a partire da una dimensione da stabilire per legge – dovrebbe essere esplicitamente introdotta nella Costituzione.
Nei luoghi di lavoro potrebbe così essere realizzato un sistema analogo a quello della Mitbestimmung (co-determinazione) tedesca. Le aziende dovrebbero, in linea di principio, essere condotte con la partecipazione decisionale dei rappresentanti eletti dai lavoratori. In Germania il Consiglio di Sorveglianza – che detta le strategie aziendali e approva i bilanci – ha membri eletti per metà dai lavoratori e per l’altra metà nominati dagli azionisti. Il Consiglio di Amministrazione, composto dai manager nominati con l’assenso del Consiglio di Sorveglianza, gestisce le operazioni aziendali. Grazia alla mitbestimmung la manifattura tedesca ha grande successo ed è diventata forte, innovativa e competitiva.
La democrazia economica dovrebbe riguardare anche e soprattutto gli enti pubblici, con forme di partecipazione degli utenti e dei lavoratori alla gestione diretta dei servizi pubblici, dal livello locale in su.
La democrazia economica dovrebbe inoltre riguardare l’elaborazione e la gestione dei bilanci pubblici, dal livello locale in su, grazie a forme avanzate di bilancio partecipativo. In Svizzera e in California i cittadini hanno per esempio modo di esprimersi e di co-decidere direttamente (insieme agli organi rappresentativi e amministrativi) su tasse e spese di bilancio. Il fisco verrà sempre considerato con sospetto se manca la partecipazione, la trasparenza e il monitoraggio delle spese.
La democrazia economica dovrebbe prevedere forme di federalismo fiscale con potere decisionale e responsabilità diretta delle comunità locali ai diversi livelli, sia per quanto riguarda la raccolta fiscale che la gestione della spesa. I cittadini devono potere decidere per quanto possibile dell’utilizzo delle loro tasse e controllare direttamente l’efficacia della spesa pubblica. Ovviamente lo stato è responsabile delle strategie e delle linee guida unitarie, delle amministrazioni centrali e dei fondi perequativi.
Quinto punto: oltre alle forme di proprietà già previste dalla Costituzione – privata e pubblica/statale – andrebbe introdotta anche la proprietà comunitaria dei beni comuni . Ovvero una forma proprietaria non privata né statale ma collettiva, per garantire la gestione diretta dei beni comuni da parte delle comunità di riferimento. I beni comuni di carattere locale, regionale e nazionale – a partire dai beni ambientali e culturali – devono, per quanto possibile, essere gestiti in maniera decentrata dalle comunità di riferimento in una ottica di preservazione e di sano sfruttamento delle risorse comuni.
Che siano boschi, pascoli, Internet, free software o nuove conoscenze, le organizzazioni comunitarie hanno infatti il maggiore interesse a gestire in modo efficace e sostenibile i commons che utilizzano o producono direttamente e gratuitamente. I diritti di proprietà sui commons non dovrebbero tuttavia includere la possibilità di cedere a terzi i beni comuni, ma dovrebbero garantire agli enti comunitari la possibilità di gestirli autonomamente per conservarli e svilupparli con profitto collettivo. A questo fine, lo Stato promuove gli enti di gestione comunitaria come cooperative, fondazioni, società no profit. Lo Stato democratico rappresenta ovviamente l’interesse della comunità suprema, della comunità nazionale, e vigila e garantisce che le gestioni comunitarie ai vari livelli soddisfino le esigenze di benessere nazionale.
Sesto punto: in particolare lo stato incoraggia e promuove lo sviluppo dei beni comuni nel campo della produzione di informazione e delle conoscenze. Sostiene anche finanziariamente la diffusione dell’informazione indipendente e delle conoscenze di dominio pubblico prodotti da parte di enti statali (come le università) e da enti no profit della società civile.
Settimo punto: lo stato è pienamente responsabile dell’emissione monetaria . Lo stato deve finanziare le attività pubbliche con la sua moneta e, in linea di principio, non deve indebitarsi con soggetti esteri, né tanto meno in moneta estera. Lo stato deve infatti essere sempre in grado di ripagare i suoi debiti emettendo moneta sovrana in modo da non subordinarsi a enti esteri. La quantità di emissione di moneta sovrana è decisa dalla Banca Centrale in base a criteri prefissati con l’obiettivo statutario di evitare eccessi inflazionistici e deflazionistici. Il Parlamento decide invece i criteri generali di allocazione monetaria tra istituti finanziari pubblici e privati, e tra istituzioni finanziarie, cittadini e aziende, con l’obiettivo di sviluppare una economia sostenibile e l’occupazione. La Banca Centrale pubblica è l’organo tecnico di emissione monetaria, opera in collaborazione con il Tesoro ed è sottoposta alle direttive e alla vigilanza del Parlamento.
Ottavo punto: è previsto il deficit di bilancio finanziato anche con emissione monetaria da parte della Banca d’Italia per alimentare gli investimenti infrastrutturali materiali (lavori di ristrutturazione del territorio e dei centri urbani, riassetto idrogeologico, ecc) e immateriali (ricerca e sviluppo, istruzione, sanità, ecc) a vantaggio delle generazioni presenti e future. Deve essere applicata la golden rule (regola d’oro) fiscale: le spese pubbliche sono sostanzialmente coperte dalle tasse; gli investimenti in conto capitale invece possono essere fatti in deficit. Uno stato con un bilancio strutturalmente alla pari regredisce e soffoca l’economia. Uno stato con un debito sano per investimenti produttivi progredisce. Occorre quindi abolire l’art. 81 della Costituzione recentemente introdotta su pressione del governo tedesco.
Nono punto: La Costituzione deve prevedere che siano contrastate attivamente concentrazioni di potere economico, finanziario e mediale che possano entrare in conflitto con la democrazia e mettere a rischio la sovranità democratica. Devono essere previste norme generali che escludano commistioni tra interessi politici e interessi economici privati.
Decimo punto: lo stato promuove, anche con sostegni finanziari, le attività sociali e politiche degli organismi nati dalla società civile, in rete e non, e dei partiti democratici, in base ai criteri definiti dalle leggi. L’attività di interesse pubblico deve essere incoraggiata, incentivata e supportata anche economicamente. Nell’Atene della democrazia ai tempi di Pericle le assemblee politiche erano pagate ai cittadini che vi partecipavano. Non solo i ricchi e i miliardari devono essere in grado, avendone i mezzi e il tempo, di svolgere attività politica.
Queste proposte appariranno troppo “rivoluzionarie” (e in parte effettivamente lo sono) ma non è difficile dimostrare che molte hanno già trovato ospitalità nelle Costituzioni di diversi Paesi e/o sono già state messe in pratica almeno parzialmente nelle maggiori democrazie. Si dirà che – ammesso ovviamente che queste proposte siano valide e condivise – è impossibile modificare la Costituzione con progetti così radicali nel breve e medio termine. Ma qui l’intento è di aprire un dibattito a 360 gradi, e non di incidere immediatamente sulla politica attuale.
Questo articolo è stato pubblicato da Micromega online il 18 gennaio 2017