Fidel e la storia che non ci ha assolti

30 Novembre 2016 /

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di Luca Mozzachiodi e Jean-Michel Godartre
Il 26 novembre muore a novant’anni Fidel Castro che sessanta anni fa intraprendeva la vittoriosa lotta per la liberazione di Cuba dalla dittatura di Batista ed edificare il socialismo sull’isola, scuotendo il giogo imperialistico degli Stati Uniti; sappiamo quanto se ne sarebbero ricordati. Nonostante tentativi di colpi di mano, attentati e manovre di strangolamento economico attraverso l’embargo, a Cuba il socialismo sopravvive, si riforma e si adatta alle condizioni di questi anni ma sopravvive, rimanendo un faro per i leader bolivariani anche nei sussulti reazionari e neoconservatori che attraversano l’America Centrale e Meridionale.
Non si tratta in queste poche righe di portare un omaggio, né, a maggior ragione, di constatare che con Fidel finisce il Novecento o che muore il socialismo, come ci si sta affrettando a dire un po’ ovunque. Sostenere la prima affermazione significa di fatto collegare la sua figura di rivoluzionario e di statista a un tempo già concluso e passato, relegandovi così tutta l’esperienza cubana, nonostante le taglienti analisi con cui ha mostrato le fragilità della presidenza Obama e del nuovo corso di relazioni con gli Stati Uniti, significa solo ribadire che non ci sono alternative politiche al liberalismo capitalista occidentale e che in anfratti di un secolo che non ci riguarda più sopravvivono dei fossili storici posti momentaneamente fuori dal mondo contemporaneo da un’arretratezza ideologica.

La seconda è un’affermazione talmente cretina che a malapena vale commentarla, dato che il socialismo non si misura in anni o mandati ma è un complesso di articolazioni di rapporti in una società che mai è stato legato a un uomo solo. Quello è il giudizio dei borghesi, siano pur essi rivoluzionari o progressisti, che hanno però assorbito pienamente la teoria ideologica della storia come prodotto dei grandi individui. Chi se ne va e finisce è semplicemente l’uomo Fidel Castro, il compagno Fidel, ma la sua morte non deve lasciarci una nostalgia sterile, deve educarci: dobbiamo infatti comprendere proprio in queste occasioni quanto di noi è ancora prigioniero dell’ideologia e legge la storia e gli accadimenti o gli operati politici in termini di virtù personale, quanto di noi è ancora molto infantile.
Di Fidel restano tra molto, che lo si voglia o no, i torrenziali discorsi pubblici, specialmente quelli all’ONU, con la funzione di opposizione nella loro concretezza simbolica; vogliono dire “signori, qui ci avete sempre ignorato, ma ora ci dovete ascoltare” e oppongono al serrato tempo della burocrazia e del comando il tempo dell’uomo che ascolta l’uomo, una politica che non sia mera traduzione delle forze materiali e degli interessi immediati. Ecco cosa ci racconta l’opera di Fidel: una politica che non si smarrisce in individualità arroganti e machiste, un’attività quotidiana e morale che dal popolo esprima nei propri rappresentanti e compagni un forte e incessante desiderio di riscatto e giustizia sociale, ad opera di uomini certo fallibili, ma risoluti nel cambiare la storia dalla parte degli oppressi.
È questa a ben vedere la sostanza e dunque la fortuna del sogno cubano, come un dramma allegorico in cui Davide può vincere Golia anche fuori dal racconto biblico; ci dice che è possibile opporsi a uno strapotere non solo perché c’è una strada evidente e facile per farlo, ma perché si crede che costruirne una insieme, per quanto difficile, sia il solo modo di essere uomini.
Resta dunque ai giovani, quello che potremmo chiamare lo sforzo di un paese allegorico. Il Novecento come mai altro prima è stato un secolo in cui le idee politiche, i progetti, le aspirazioni, le intere visioni della storia e del futuro agivano sullo scenario del mondo in una combinazione serratissima tra realtà materiale e scontro ideologico.
La dura lezione che dobbiamo trarre oggi è che non dobbiamo dimenticare, ma far tesoro delle difficoltà, dei tentativi nemici di soffocarci con mezzi di gran lunga superiori a quelli in nostro possesso, sempre nell’ostinata consapevolezza che questo sistema non può durare e che crea una società (sempre più) ingiusta in cui la ricchezza resta prodotta dallo sfruttamento, quanta essa sia, anzi spesso aumentando entrambi di pari passo.
Sarà possibile scrivere una storia nel socialismo quando la lotta (con il capitalismo) sarà conclusa e allora evidentemente ci saremo liberati dei metri di giudizio prodotti al tempo del capitale e comprenderemo la necessità di certe opposizioni e posizioni, solo allora apparirà chiaro il pensiero che dà forma alla frase che Fidel ebbe a dire nel famoso processo dopo il fallito tentativo di prendere il potere. La condanna dei nemici e di quella storia scritta tra i loro quartieri generali e tribunali mentali non è nulla più che una tautologia ovvia e irrilevante, mentre in quelle parole si dispiega un superiore progetto politico e una concezione rivoluzionaria del giudizio, il giudizio di una società a venire.
Quelli che invece finora non sono assolti e non devono esserlo siamo noi: da quanti ne fanno la ridicola bandiera di una militanza à la carte, ai turisti della rivoluzione che vogliono andare a Cuba “prima che cambi” come si passeggia nei Luna Park tra i diorami con triceratopi e australopitechi, dai professori che si affannano a dimostrare l’inconsistenza ideologica del socialismo di Castro per nascondere l’inconsistenza del loro pensiero che mai sa farsi azione, a quelli che guardano incantati alla televisione video in bianco e nero della Sierra Maestra, sorridendo mesti al pensiero dei bei tempi andati, sognando di essere impavidi eroici barbudos, fra fucili e cieli stellati, lì in un tempo di distinzioni facili e nemici certi, invece di assumersi la responsabilità di distinzioni difficili contro nemici sempre meno riconoscibili. Siamo tutti responsabili e colpevoli e se non ci sbrighiamo saremo respinti ai margini di una storia che non ci assolverà.
Un film di qualche anno fa sul socialismo latinoamericano si concludeva significativamente con Raúl Castro che batteva la mano sulla spalla di Rafael Correa dicendo «Ora tocca ai giovani», così è la morte di Fidel, una mano battuta sulla spalla di ogni compagno che richiama all’azione. Non è una novità che gli uomini muoiano, ma centinaia di giornalisti, opinionisti, postatori seriali di commenti sui social media lo scopriranno solo in questi giorni. Noi se vogliamo essere coerenti dobbiamo scoprire quanto di noi è già morto prima ancora di venire alla luce se oggi abbandoniamo l’animo alla mestizia e al vuoto orgoglio e soprattutto se abbiamo ancora bisogno di Fidel, per dirne bene o male. Oggi abbiamo scoperto che gli uomini muoiono ma le idee devono vivere.

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