Intellettuali del Belpaese dove il sì suona e dove si tenta di soffocare il no

11 Ottobre 2016 /

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Referendum - Comitato per il no
Referendum – Comitato per il no

di Fausto Pellecchia
Con l’avvicinarsi del 4 dicembre, il confronto tra gli opposti schieramenti del Sì e del No alla domanda referendaria si fa sempre più aspro. Alcuni intellettuali che godono ancora di un notevole prestigio nelle fila disperse della sinistra italiana, si sono espressi per il Sì con argomentazioni di diverso tenore.
Il giudizio più tranchant è quello di Eugenio Scalfari per il quale il dibattito televisivo “all’americana” tra Zagrebelsky e Renzi «si è concluso con un 2 a 0 a favore di Renzi». Il motivo principale per accreditare questa netta vittoria ‘calcistica’ deriverebbe non tanto dalle deludenti tattiche comunicative adottate dal noto costituzionalista [o piuttosto dalla sua disarmante ingenuità nell’affrontare il medium televisivo, rispettandone le regole “spettacolari” e i ritmi serrati], ma da un grave fraintendimento di natura teorico-analitica; e cioè dalla “falsa” contrapposizione tra democrazia e oligarchia che ha ispirato la sua critica alla revisione renziana.
Secondo Scalfari, infatti, Zagrebelsky «non sa cosa significa oligarchia e come si è manifestata nel passato prossimo e anche in quello remoto» (sic!). Perciò, il fondatore di la Repubblica, legittimandosi all’uopo come maestro in forza della veneranda senectus, non ha esitato a salire in cattedra per impartire al negligente discepolo un succinto excursus storico, contenente una sommaria rassegna – che dalla filosofia politica di Platone e dall’Atene di Pericle giunge fino ai partiti di massa del ‘900 (DC e PCI), passando per le repubbliche marinare e i Comuni del sec.XIII- dei più evidenti exempla a sostegno dell’affermazione che «oligarchia e democrazia sono la stessa cosa».

A questa perentoria conclusione il sillogismo scalfariano perviene enunciando, nella premessa minore, la perfetta equazione tra le nozioni di oligarchia e di classe dirigente [«L’oligarchia è la classe dirigente, a tutti i livelli e in tutte le epoche»]. Perciò, paradossalmente, se un rimprovero andava rivolto al Presidente Renzi, è che «non è abbastanza oligarchico» perché ancora troppo legato al «cerchio magico dei suoi più stretti collaboratori». Straordinaria, ‘magistrale’ confusione tra il disegno normativo del patto costitutivo e la cosiddetta “costituzione materiale”; tra ciò che la costituzione formale, sancita nella carta fondamentale della repubblica, autorizza e delimita come ambito delle sue possibili interpretazioni, e l’ermeneutica storica, determinata dal contesto socio-culturale e dal sistema politico, che ne definisce via via i concreti modi di attuazione.
Questi due momenti, infatti, non possono essere sovrapposti e appiattiti su un medesimo livello. L’oligarchia, come sistema di governo legittimato dalla costituzione formale, e la variabile composizione-distribuzione delle classi dirigenti in base ai rapporti di forza tra le classi sociali e agli altri fattori storici che definiscono l’effettualità di un sistema politico, sono dimensioni distinte e reciprocamente interconnesse, come il piano delle possibilità sancite in linea di diritto e quello delle attuazioni storico-fattuali.
Per valutare gli effetti nefasti di tale confusione “teorica”, basterebbe immaginare quali possibilità di attuazione politica verrebbero legittimate, se l’articolo 1 della nostra Costituzione, in omaggio alla “verità” scalfariana, venisse così modificato: “L’Italia è una Repubblica oligarchica, fondata sul lavoro del popolo. La sovranità appartiene a coloro che appartengono alla classe dirigente e che la esercitano nelle forme e nei limiti della costituzione.”
Forse Scalfari avrebbe dovuto meditare con maggior cura su quanto il suo “amico” Gustavo potrebbe spiegargli con la necessaria dovizia di distinzioni teoriche. Una democrazia rappresentativa [lontana dalle ‘mostruosità’ della democrazia diretta – non tanto quella dei soviet, ma, come esplicitamente paventa Scalfari, quella che «oggi vorrebbero i 5 Stelle di Beppe Grillo»] si regge sulla dialettica tra rappresentanti e rappresentati. A questi ultimi, in democrazia, spetta la scelta dei primi attraverso i canali della libera formazione di associazioni politiche.
Come osserva Nadia Urbinati nella sua garbata replica a Scalfari [cfr. Potere concentrato e potere diffuso, la Repubblica, 4/10/ 2016]: «la democrazia rappresentativa non è un ossimoro» e, reciprocamente, «l’oligarchia non è democrazia», poiché «l’elemento democratico non sta solo nel voto (eguale nel peso e individuale) ma nel voto che prende corpo all’interno di una società plurale, fatta di un reticolo di opinioni, liberamente formate, comunicate, associate, discusse e cambiate. È il libero e plurale dibattito che dà alla selezione elettorale (di natura aristocratica, secondo gli antichi e i moderni) un carattere democratico. (…) Perché è importante tenere insieme i pochi e i molti? (…). Tra le tante ragioni che si potrebbero addurre, una soprattutto merita attenzione : per impedire la solidificazione del potere dei selezionati: ovvero per scongiurare la formazione di una classe separata, oligarchica».
L’efficace funzionamento di un sistema democratico, pertanto, dipende essenzialmente dalla tenuta della sua rappresentatività, garantita da norme costituzionali che definiscono le forme della partecipazione universale dei cittadini ai processi di formazione e applicazione delle leggi e alla loro esecuzione da parte del governo. Il 4 dicembre, con buona pace di Eugenio Scalfari, si vota su questi assetti costitutivi della democrazia, non certo sulla effettiva composizione sociale dei ceti dirigenti o sull’efficacia del “cuneo fiscale” nella politica economica del governo, come egli vorrebbe far credere, spostando con disinvolta malizia l’oggetto dell'”arbitrato” referendario.
Diversamente argomentate, anche se convergenti, appaiono le esternazioni di Michele Serra e di Massimo Cacciari in favore del Sì. Quella che a tutta prima appare come una vistosa incongruenza logica, tra la premessa di una “riforma che fa schifo”, “riforma maldestra” (Cacciari) e il “voterò Sì” della conclusione, tradisce in realtà una perversa pulsione masochistica, da autentico heatontimorumenos.
«Non abbiamo la faccia, noi sinistra, noi classe dirigente del Paese, noi italiani senzienti e operanti tra i Sessanta e il Duemila (e rotti) – confessa Michele Serra che dice di interpretare anche la posizione di Cacciari – per giudicare con la puzza sotto il naso il lavoro di un governo di giovanotti avventurosi e forse avventuristi. Dal riflusso in poi (…), la sinistra semplicemente ha smesso di esistere se non come reazione stizzita al presente»
Entrambi, Serra e Cacciari, si professano totalmente “antirenziani” ma avvertono la sottomissione a Renzi, «con il quale hanno quasi zero in comune», come un atto di necessaria e salutare espiazione del proprio peccato di impotenza. Ci sarebbe una «ineluttabilità, nel renzismo, che da un lato sgomenta, dall’altro chiede di compiersi per il semplice fatto che più niente di davvero significativo si è compiuto, a sinistra, dopo gli anni costituenti e quelli dell’avanzata operaia. Dal riflusso in poi (dunque dai primi Ottanta) la sinistra semplicemente ha smesso di esistere se non come reazione stizzita al presente»
In Cacciari, l’assenso al renzismo si colora delle risonanze teologico-politiche del katechon della II lettera di Paolo ai Tessalonicesi, che nella loro attuazione secolarizzata, ribattezzata “male minore”, inducono ad accettare il disperato assioma secondo il quale già solo «l’idea che qualcosa accada è più convincente dell’idea che quella cosa possa essere sbagliata». La sostanziale acquiescenza alle tante decisioni politiche prese da Renzi in aperta rottura con la tradizione culturale della sinistra italiana sarebbe perciò l’amaro calice che consegue all’ammissione di un fallimento strategico irreparabile.
La sinistra non-renziana che Cacciari e Serra gettano nelle braccia del renzismo come dolorosa e salvifica catarsi delle proprie colpe, vede in esso l’ultimo, fragile tassello del potere che frena e contiene il dilagare dell’ “anomia” dei 5 Stelle. E per frenarla, i reduci della sinistra si rassegnano infine a lasciar contenere se stessi sotto le insegne catecontiche del vituperabile Matteo. In questo senso, le posizioni dei Cacciari e dei Serra, di fatto, inaugurano già l’apocalissi di quella stessa anomia “anticristica” che vorrebbero scongiurare. Non a caso, il testo della domanda referendaria, incentrato su “la riduzione del numero dei parlamentari”, “il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni”, “la soppressione del Cnel” sembra formulato intenzionalmente nel linguaggio “antipolitico” dell’Avversario, proprio al fine di suscitare unanime assenso. Tanto che, com’è noto, per questo flagrante tentativo di “travestimento ideologico”, proprio il M5S, unitamente a Sinistra italiana e al Codacons, hanno proposto ricorso al TAR del Lazio.
Con l’accettazione della “svolta” renzista, giustificata come “stato d’eccezione”, questa sinistra ammette la sua impotenza politica e culturale a governare il paese, e , per sopravvivere, crede di doversi rimescolare in maniera subalterna nel progetto del Centro-destra, rendendosene irriconoscibile, pena l’espulsione. In questa prospettiva, l’odierna figura secolare dell’Anomos paolino si annuncia già sotto le spoglie dell’ultimo katechon che, alla luce delle profezie teologico-poltiche di (Paolo e di) Cacciari [cfr.Il potere che frena, Adelphi, 2013] , è già tutto compreso e con-tenuto nell’orizzonte aporetico e intrinsecamente contraddittorio dell’ “ultimo uomo” al quale si ispira il renziano “cerchio magico”. Qui, infine, «il katechon, esausto, sconfina nella manifestazione piena dell’Anticristo»: nel suo fragilissimo perimetro, «ogni forma politica finisce col diventare funzione di quelle stesse potenze fisiologicamente insofferenti del suo primato», dal momento che «il politico non può più avanzare alcuna autorità che non sia al servizio del funzionamento del sistema tecnico-economico e finanziario».
Partito della Nazione: questo è il nome del novello Epimeteo politico, il nume infernale che guida l’intellighenzia di sinistra all’estremo atto sacrificale, all’apostasia dai propri principi e all’accettazione del ruolo vicario, post-politico, di governance funzionale ad apparati tecnico-finanziari in permanente conflitto per il dominio del “mercato globale”. E così sia, nonostante l’altissimo rischio di «scoperchiare sempre nuovi vasi di Pandora».
Questo articolo è stato pubblicato da Inchiesta online l’8 ottobre 2016

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