Colombia dopo il Nobel: l'accordo rigettato e la pace che si allontana

10 Ottobre 2016 /

Condividi su

Il Nobel per la pace 2016 è andato al presidente colombiano Juan Manuel Santos che ha guidato il Paese verso il processo di pace con i guerriglieri Farc. Nei giorni scorsi sono state tante le considerazioni in proposito. Per avere un’idea di quello che è accaduto e delle ragioni del riconoscimento di Oslo, riproponiamo questa rifessione.
di Maurizio Matteuzzi
Sono molte le ragioni che, a posteriori, possono spiegare il fulmine a ciel sereno caduto il 2 ottobre scorso sulla Colombia. Il clamoroso, e inquietante, rigetto del referendum sull’accordo di pace, negoziato per 4 lunghi anni nel silenzio discreto dell’Avana fra il governo – anzi lo Stato – colombiano e le Farc, Forze Armate Rivoluzionarie Colombiane, il più antico e radicato gruppo guerrigliero dell’America latina e probabilmente del mondo, ha colto tutti di sorpresa. Non solo le società di sondaggi che davano il sì al 60-70% e il no al 30-40%. Invece il no ha vinto, sia pure per un pugno di voti e con meno di un punto percentuale – grosso modo 60 mila voti sui quasi 13 milioni totali, 50.2% contro 49.8% – e soprattutto in presenza di un livello di astensione incredibile (se non fossimo in Colombia, il paese dei paradossi) pensando alla posta in palio, il 63%.
La pace sembrava a un passo dopo 52 anni di guerra civile strisciante – le Farc nacquero nel ’64 come guerriglia campesina contro l’arroganza violenta del duopolio oligarchico liberali-conservatori -, anzi dopo quasi 70 anni – se la si fa partire dall’assassinio del leader liberale Jorge Eliécer Gaitán, nel 1948, che nella capitale scatenò la rivolta nota come “el Bogotazo” e nel paese il feroce decennio chiamato “la Violencia”.
Il 29 agosto dall’Avana era stato proclamato un “cessate il fuoco bilaterale e definitivo”, il 26 settembre da Cartagena il presidente Juan Manuel Santos e il leader delle Farc Rodrigo Londoño Echeverri, “Timochenko”, vestiti di bianco, avevano firmato l’accordo e celebrato la pace in pompa magna e davanti a una bella fetta di mondo. Il referendum del 2 ottobre doveva essere e non sembrava altro che una formalità. Invece è stata la Brexit della Colombia. Uno tsunami.

Ora è di nuovo tutto in gioco, in forse, anche se il ritorno dei guerriglieri nella selva è, almeno per ora, improbabile e lo stesso Timochenko, in un primo commento a caldo, pur “lamentando il potere distruttivo di quelli che spargono odio”, ha confermato che “le Farc mantengono la loro volontà di pace e ribadiscono la loro disposizione a usare solo la parola come arma di costruzione del futuro”.
Anche un plumbeo Santos dalla tv assicurava che “non si arrenderà” e continuerà “a cercare la pace fino all’ultimo istante del suo mandato”. Ma se, come capo del governo e delle forze armate, ha potuto confermare che il cessate-il-fuoco bilaterale continua a essere vigente, sapeva benissimo che l’accordo in quanto tale – minuzioso, circostanziato, complessivo, inevitabilmente lungo quasi 300 pagine – vigente non lo è più.
Se la pace non era il paradiso in terra ma almeno faceva sperare di poter uscire dall’inferno di mezzo secolo di guerra e di narco-guerra – 220-260 mila morti, 45-50 mila desaparecidos, 7 milioni di desplazados, i profughi interni -, la Colombia si ritrova in un limbo pieno di nebbia e di pericoli. Il referendum di domenica 2 ottobre ha indicato con assoluta chiarezza vincitori e vinti. Lo sconfitto è il presidente Santos (in una nutrita compagnia: i partiti della sua coalizione di governo, la maggior parte dei media, le società di sondaggi, il 90% degli editorialisti, la sinistra, l’intellighenzia, le star dello showbiz come Shakira, la comunità internazionale), il vincitore è l’ex-presidente Alvaro Uribe.
Santos aveva puntato tutto sul referendum, che pure non era necessario e che molti del suo entourage e le stesse Farc gli sconsigliavano come mossa troppo azzardata. Lo voleva forse per passare alla storia – lui uomo di destra ed ex ministro della difesa di Uribe – come “il presidente della pace” e come possibile vincitore del Nobel che stava per essere proclamato a Oslo, di cui era uno dei candidati più forti. O forse per cercare di rimontare l’alto tasso di impopolarità che lo affligge a due anni dalla fine del suo secondo e conclusivo mandato, ora che l’economia non tira più a causa della crisi globale e che a giorni deve presentare in parlamento una riforma tributaria che si annuncia dolorosa per il tentativo di far pagare finalmente le tasse ai ricchi ma necessaria anche per rilanciare l’immagine internazionale della Colombia, paese modello liberal-liberista e filo-USA in un’America latina ricalcitrante.
Uribe, l’estrema destra nuda e pura, eletto due volte fra il 2002 e il 2010 mentre il resto del continente girava a sinistra, da presidente non è riuscito nel suo obiettivo dichiarato (nonostante i 10 miliardi di dollari elargiti da Clinton attraverso il Plan Colombia), la sua ossessione: vincere la guerra con la sconfitta militare e la resa incondizionata delle Farc. Per questo è stato fin dall’inizio contro i negoziati avviati nel 2012 all’Avana dal suo ex-ministro, il “traditore” Santos, e il critico più feroce di ciascuno dei punti dell’accordo.
Al contrario di Santos e del fronte del sì, ha saputo peròcreare una mobilitazione reale fondata sulla paura e a connettere il no all’ “accordo di impunità con i narco-terroristi” (che aprirebbe inevitabilmente la strada al “castro-chavismo” in Colombia) con il no a Santos con le sue nuove tasse (annunciate dalla imminente riforma tributaria), l’attacco ai “valori tradizionali” della famiglia (per certe dispense sull’educazione sessuale distribuiti nelle scuole) e ai diritti della proprietà privata (per la distribuzione di 3 milioni di ettari di terre ai campesinos desplazados come previsto dalla sia pur modesta riforma agraria fissata dall’accordo di pace).
Con Uribe si è mossa la Colombia urbana (che ha vissuto la guerra civile da lontano e, ad eccezione di Bogotá, Cali e qualche altra città, ha votato no) contro la Colombia rurale (che la guerra l’ha vissuta in carne propria e ha votato massicciamente sì). Si è mossa la destra politica più oltranzista e la parte della magistratura più reazionaria. Si sono mosse le mefitiche sette evangeliche che infestano anche la Colombia.
Si sono mossi – nell’ombra, anche se adesso cominciano a venire fuori i nomi – alcuni dei poteri forti dell’economia (terratenientes e ganaderos, ossia gli agrari e gli allevatori che si sono impossessati delle terre dei contadini desplazados dalla guerra e dai paramilitari), qualcuno dei grandi gruppi imprenditoriali, una trentina almeno degli esponenti dell’immarcescibile oligarchia che da sempre si spartisce il paese, e perfino, a quanto sembra, certi “strateghi stranieri”. A sorpresa si è mossa anche la chiesa cattolica colombiana che, al contrario di papa Francesco, è stata fin dall’inizio reticente a prendere posizione chiara per il sì (con qualche eccezione, come l’arcivescovo di Cali Darío de Jesús Monsalve e i gesuiti) preferendo mantenere una tiepida “neutralità” che di fatto, per la clamorosa contraddizione con la posizione del pontefice, la collocava in contiguità del no.
Nel limbo in cui si ritrovano, i tre protagonisti del dramma – Santos, Uribe, Timochenko – dicono tutti di voler la pace e di essere pronti al “dialogo”, a qualche “rettifica” e “modifica”, a un “grande accordo nazionale”, forse anche attraverso un’assemblea costituente. In realtà è chiaro che Uribe vuole “correggere”, ossia smantellare, tutti i punti più qualificanti dell’accordo, a cominciare dalla “impunità” e dalla “partecipazione politica” dei guerriglieri una volta smobilitati. Improbabile, per non dire impossibile, che le Farc accettino. Ora il futuro è da scrivere e il tempo stringe. Lo stesso cessate il fuoco è “bilaterale e definitivo” solo nell’ambito del complessivo Accordo di pace, che è un accordo negoziato e non una resa fra vincitori e vinti. In caso contrario, ha ricordato lo stesso Santos, resterà in vigore solo fino al 31 ottobre prossimo. Anche se è “prorogabile” e con ogni probabilità sarà prorogato.
Il 2 ottobre la Colombia ha fatto un salto nel buio. È in stato confusionale e ha paura. Due giorni dopo lo choc del risultato una “marcia per la pace” lanciata sui social network dagli studenti si è trasformata a sorpresa in una oceanica manifestazione per le vie del centro di Bogotà. C’è perfino chi propone di rifare il referendum per vedere di smuovere quel 63% di elettori che il 2 ottobre non sono andati a votare per lo storico disincanto e la giustificata diffidenza verso un sistema in cui a vincere è la solita oligarchia di sempre. C’è anche chi dice che, sotto la spinta dell’uribismo radicale, Santos potrebbe fare la fine di Cameron dopo la Brexit ed essere costretto a dimettersi prima della fine del mandato, nel ’18.
Peccato. Era una grande occasione per scrivere una pagina di storia. È stato invece, in attesa di vedere come la situazione si evolverà, un altro brutto colpo per l’America latina che dopo un decennio di rinascita marcato a sinistra sembra avvitarsi sempre più in una deriva di destra.
Alla fine, forse, la vera ragione per cui hanno vinto Uribe e il no è stata il rifiuto di accettare non tanto l’accordo dell’Avana “troppo generoso” verso la guerriglia di sinistra (in fin dei conti la legge con cui nel 2006 Uribe promosse la smobilitazione dei suoi amici paramilitari di estrema destra, per molti versi non era meno generosa) quanto il fatto che le Farc, per quanto indebolite dal Plan Colombia e “sporcate” dal narcotraffico, isolate dopo la caduta del muro e la fine della guerra fredda, non sono state schiacciate sul piano militare. E dopo mezzo secolo sono ancora lì con i loro 8-10 mila combattenti (di cui un terzo donne). Non hanno vinto ma neanche perso. E l’Accordo di pace è un accordo negoziato, non una resa incondizionata.
Scheda – I contenuti dell’accordo di pace
L’Accordo di pace consta di 297 pagine, doveva essere monitorato dall’ONU e depositato presso il Consiglio federale svizzero di Berna.

  • 1) FINE DEL CONFLITTO – Dopo il “cessate il fuoco” del 29 agosto, le Farc dovevano raggruppare i 5765 combattenti dichiarati nelle 27 “zone di normalizzazione”, dove, sotto controllo ONU entro 180 giorni, lasciare le armi e reincorporarsi alla vita civile.
  • 2) GIUSTIZIA PER LE VITTIME – Creazione di una Commissione per la verità e di tribunali ad hoc per i crimini commessi da guerriglieri, paramilitari e membri delle forze armate; amnistia per i delitti politici, quali la ribellione, ma non per i crimini di guerra e contro l’umanità. Per la confessione di crimini atroci prima del processo, una “restrizione della libertà” (non il carcere) fino a 8 anni; durante il processo, 8 anni di carcere; 20 anni di carcere per chi non confessa e sia dichiarato colpevole.
  • 3) NARCOTRAFFICO – Le Farc: fine della produzione di droghe e del narcotraffico nei “loro” territori. Il governo: impegno di offrire sostegno ai campesinos che accettano di cambiare le colture.
  • 4) PARTECIPAZIONE POLITICA – Le Farc come movimento politico legale e la garanzia del governo sulla sicurezza degli ex-guerriglieri per evitarne il sistematico sterminio come accadde negli anni ’80 e ‘90. Inoltre 10 seggi, sui 268 del parlamento, riservati alle Farc per due legislature.
  • 5) SVILUPPO AGRARIO – L’impegno del governo: più accesso alla terra, crediti, investimenti, servizi di base nelle zone rurali; un fondo di 3 milioni di ettari da consegnare (o restituire) ai campesinos e altri 7 milioni di ettari da attribuire in proprietà. Stando all’ultimo censimento agrario, lo 0.4% dei terratenientes possiede il 40% delle terre e il 70% dei piccoli proprietari il 5%.
  • 6) REFERENDUM – Per divenire effettivo l’Accordo di pace doveva passare per un referendum. Un punto che Santos, ignorando i consigli contrari, aveva fatto sancire dalla Corte costituzionale. E che gli è stato fatale.

Aiutaci a diffondere il giornalismo libero e indipendente.

Articoli correlati