Il "socialismo realizzato" e la sua degenerazione: successi e fallimenti della transizione verso una società più giusta

5 Ottobre 2016 /

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Sinistra
di Valerio Romitelli
Dall'”utopia” alla “scienza”. Questa, la arcinota formula di Engels a proposito di ciò che egli nel 1880 riteneva fosse l’avvenire del socialismo, inteso come militanza politica dedita a rendere possibile la transizione verso il comunismo. O comunque verso una società più giusta. Da allora in poi due sono state le esperienze storiche maggiori che si sono compiute in nome del socialismo.
Una è stata quella della socialdemocrazia originariamente a modello tedesco, la quale si è diffusa nel mondo tramite la Seconda Internazionale: un’esperienza, questa, che si è praticamente estinta con la prima guerra mondiale, ma che è poi risorta in seguito, per avere infine il suo momento di successo maggiore nel secondo guerra, segnatamente nell’Europa di quelli che si sono chiamati i “trent’anni gloriosi”o l'”età d’oro” del capitalismo. Ciò che ha reso così singolare questa epoca tra il ’45 e il ’75 sono state infatti anzitutto le politiche di welfare aventi tra i primi promotori i partiti socialdemocratici all’interno della maggior parte dei paesi capitalisti, dentro e fuori il vecchio continente.
Allora in effetti fin dalla bocca di un ministro inglese potevano uscire motti, oggi inimmaginabili, come “dalla culla alla bara”: tale era infatti il livello al quale, secondo il laburista Beveridge, dovevano spingersi le politiche sociali dello Stato britannico all’uscita dalla seconda guerra mondiale. Salari alti, scolarizzazione e assistenza sociale di tipo universalistico, infoltimento del ceto medio sono stati notoriamente alcuni dei maggiori effetti positivi di questa straordinaria stagione tra il ’45 e il ’75, foriera a livello globale di un grado di giustizia sociale senza precedenti, né seguiti.

L’altra maggiore esperienza storica condotta in nome del socialismo è stata quella che ne ha rivendicato la realizzazione e che si è appunto definita socialismo reale. Sua patria indiscussa ne è stata l’Urss il cui modello durante quegli stessi anni “gloriosi” del secondo dopoguerra si trovato imitato in mezzo mondo: dalla Cina a Cuba, dal Viet-nam e dalla Corea del Nord a tutta l’Europa dell’est; ma che ha anche goduto di un vastissimo seguito nell’altra metà del mondo dominato dai regimi capitalisti.
Oggi, quando si auspicano e tentano delle “politiche di sinistra”, allo scopo di contrastare le politiche neoliberali ovunque imperversanti, è sempre al primo precedente storico che si fa più o meno direttamente riferimento.
Il secondo, quello ispirato modello sovietico, è infatti marchiato dall’infamia che, tramite la categoria di “totalitarismo”, lo associa addirittura al nazismo. Questo argomento fa parte della narrazione, oggi quasi obbligatoria, del secolo scorso come “secolo della violenza”, dei totalitarismi e così via. Una narrazione, questa, complementare al discorso neoliberale che punta ovunque a far dimenticare che un altro mondo è stato possibile, quello appunto delle politiche sociali dei “trent’anni gloriosi”, e dunque lo potrebbe essere anche in futuro.
Anziché insistere nel rimuovere questo passato che risale a non più di quarant’anni fa, occorre dunque ripensarne le condizioni singolari. Solo così si può avere un’adeguata visione storica e politica della parola “socialismo”, e quindi anche provare a capire il senso dei suoi echi contemporanei all’interno dei tentativi, prevalentemente vani, di avviare ciò che si chiamano “politiche di sinistra”.
Il tema di riflessione che propongo riguarda proprio il rapporto esistente negli anni che vanno dal 1945 al 1975 tra queste due maggiori e diverse esperienze storiche allora condotte in nome del socialismo: da un lato, le politiche socialdemocratiche o di tipo socialdemocratico attuate nei paesi capitalisti, dall’altro, quel “mezzo mondo rosso” dove a far da modello era quello del socialismo reale sovietico.
Ora è chiaro che tra queste due esperienze non c’è stato quasi mai un rapporto di simpatia o di fiducia. Più spesso si è trattato di un rapporto di reciproca esclusione, se non di esplicita ostilità. Le politiche di tipo socialdemocratico attuate nella metà del mondo a regime capitalista erano infatti finalizzate proprio per mostrare che tale regime non era incompatibile con quella giustizia sociale che l’Urss e tutti regimi costruiti a sua immagine promettevano di avere realizzato o di stare realizzando. In altri termini, le politiche sociali attuate tra il ’45 e il ’75 nei paesi capitalisti erano chiaramente una risposta alla sfida sul piano dell’egualitarismo lanciata dai paesi comunisti.
Le politiche attuate da questi ultimi paesi non sono mai state certo esenti da dubbi e contestazioni (specie in anni come ad esempio il ’56, marchiato dall’intervento dell’Armata Rossa in Ungheria), ma non hanno mai cessato di riscuotere consensi all’interno degli stessi paesi capitalisti. Ad alimentare tali consensi erano non solo gli innumerevoli partiti e organizzazioni comuniste sparsi in quasi ogni paese capitalista, ma anche quello che Mao chiamava l'”entusiasmo delle masse per il socialismo”. Il tutto fino all’esplosione degli anni attorno al ’68 durante i quali il modello sovietico venne sì più che mai rimesso in discussione, ma ad opera di movimenti e organizzazioni che intendevano rilanciare in altri modi quella stessa giustizia sociale che tale modello pretendeva di stare realizzando.
La domanda da porsi è allora: fino a che punto l’esistenza di politiche socialdemocratiche in Europa e in altri paesi capitalisti tra il ’45 e il ’75 è stata condizionata dall’esistenza in mezzo mondo di regimi ad immagine del “socialismo reale” in vigore in Urss?
Chi considera modesto o nullo tale condizionamento deve fare i conti con una circostanza quanto mai significativa. La circostanza per la quale le politiche socialdemocratiche nei paesi capitalisti hanno cominciato a declinare proprio in quella metà degli anni ’70, quando, anche a seguito delle turbolenze attorno al ’68 ( che hanno anche portato tra l’altro alla definitiva scissione tra il comunismo sovietico e quello maoista), il mezzo modo “rosso” cominciava a sgretolarsi, fino poi al crollo dell’Urss e alla conversione capitalista della Cina maturate nel corso degli anni ’80. Il tutto mentre le politiche neoliberiste cominciavano a riscuotere consensi tali da reclutare addirittura a riconosciuti campioni della sinistra socialdemocratica, come Mitterand in Francia o Schmidt in Germania. Insomma, finito il mondo del “socialismo reale” sono finite anche le politiche socialdemocratiche del mondo capitalista.
Se si assumono coerentemente tutte le conseguenze di tale circostanza non c’è che una conclusione da trarre: quella per cui l’esistenza di politiche socialdemocratiche in Europa e in altri paesi capitalisti tra il ’45 e il ’75 è stata di fatto decisamente condizionata dall’esistenza in mezzo mondo di regimi ad immagine di del “socialismo reale”. Detta più brutalmente: allora, niente politiche sociali in occidente senza lo spauracchio del comunismo dilagante ad oriente.
Questa conclusione, oggi difficile se non impossibile da digerire, ha numerose implicazioni. Tra di esse anzitutto una che qui più interessa: che se si vuole capire qualcosa delle politiche sperimentate nel ‘900 in nome di una maggior giustizia sociale è imprescindibile un bilancio della costruzione dell’Urss.
Ricerche e dibattito in materia però languono. A ciò contribuisce sicuramente la oggi quasi unanime condanna senza appello di tale esperienza storica in quanto totalitaria. Ma a ciò contribuisce anche quello che è stato opportunamente chiamato il “silenzio dei comunisti” a proposito della disastrosa svolta dell’89 che ha definitivamente e globalmente screditato il “socialismo reale” ovunque esistesse. Un silenzio che ha condannato i suoi protagonisti a ritirarsi dalla scena, convertirsi ad altri impegni o ad arroccarsi nella custodia dogmatica di una semplice nostalgia. Così, a livello di conoscenza e riflessione a questo proposito si è praticamente rimasti a quegli anni ’80 durante i quali le politiche neoliberali hanno cominciato ad imporre il loro monopolio anche nella cultura.
Senza pretendere qui di rompere tale monopolio e riaprire la problematica della “costruzione del socialismo in un solo paese” mi limito a segnalare qualche ipotesi spero utile a ripensare a un bilancio di tale esperienza e quindi a come distinguerne successi e fallimenti.
Con la prima ipotesi propongo un’entrata un po’laterale, di sbieco in siffatta complessa problematica. L’ipotesi riguarda infatti proprio le politiche sociali attuate nei paesi capitalisti durante i “trent’anni gloriosi”. Sfidando il paradosso, tale ipotesi consiste nel sostenere che tali politiche sono uno dei maggiori successi della costruzione del socialismo in Urss.
In effetti, se si ammette che tra il ’45 e il 75 c’è stata l’epoca di maggior giustizia sociale mai conosciuta dalla storia, se si ammette che le politiche sociali nei paesi capitalisti sono stati uno dei motori principali di tale giustizia sociale e se si ammette anche che tali politiche sono state una risposta alla sfida lanciata dal mezzo mondo fatto di regimi ad immagine del “socialismo reale” sovietico, allora si dovrà anche ammettere che tutto ciò va considerato un successo sia pur indiretto di quest’ultimo.
La seconda ipotesi riguarda la questione della natura di tale successo. In effetti, se si ammette che le politiche sociali nei paesi capitalisti tra il ’45 e ’75 sono state una risposta al mezzo mondo seguace dell’esempio sovietico, si deve ammettere anche tale risposta è stata anzitutto di tipo economico: politica sì, ma solo subordinatamente, in quanto volta proprio a smorzare l'”entusiasmo (politico) delle masse per socialismo (reale)” tramite notevoli concessioni economiche, quali salari alti, assistenzialismo, scolarizzazione, implementazione del ceto medio e così via. Concessioni dunque che puntavano sì anche ad una maggiore giustizia sociale, ma soprattutto a spoliticizzare quelle stesse masse passibili di entusiasmarsi per il comunismo.
Del resto che il “socialismo reale” dovesse concorrere col capitalismo a modello americano nel raggiungimento del maggior benessere economico di tutta l’umanità è stato l’imperativo dichiaratamente assunto dalla stessa Urss dopo Stalin: specie da quando, nella seconda metà degli anni ’50, con Chruščëv si è cominciato a parlare con sempre maggior enfasi di “coesistenza pacifica” tra le due superpotenze.
L’interesse di tale ipotesi sta nel fatto che essa entra direttamente nel merito della complicata faccenda del come mai il modello sovietico, dopo avere raggiunto l’apice del suo successo (tale da trascinare con sé mezzo mondo e da riscuotere ampi consensi nell’altra metà) tra il ’45 e il ’75, si sia poi trovata negli anni ’80 a declinare rapidamente fino alla sua completa dissoluzione. Ma tale ipotesi serve anche per interrogarsi sul “silenzio dei comunisti”, sul perché il tracollo dell’89 non sia stato seguito da alcun adeguato bilancio da parte dei più diretti interessati.
Tutto ciò in effetti credo appaia meno oscuro se si prende atto dell’economicismo spoliticizzante che ha caratterizzato la parabola della costruzione del socialismo in Urss. L’economicismo, il dare priorità politica agli obiettivi economici, sarebbe dunque la radice, prima dei successi, poi del tracollo dei modello sovietico e dell’incapacità dei suoi seguaci a farne un bilancio adeguato. Sintomatico è a questo proposito che l’ultimo testo importante di Stalin, leader indiscusso di tale esperienza, si intitolasse proprio Problemi economici del socialismo pubblicato nel 1952.
La terza ipotesi riguarda questo orientamento economicista e spoliticizzante che è stato spesso denunciato e criticato all’interno della storia del marxismo (ad esempio da Lenin contro il “tradeunionismo”, da Mao contro lo stesso Stalin, da Althusser nel contesto della filosofia francese degli anni ’60), ma che non ha mai cessato di ripresentarsi. Tale ipotesi consiste nel sostenere che questo orientamento, lungi dall’essere una deviazione dalla corretta interpretazione della “scienza” che Engels nel 1880 auspicava guidasse il socialismo, ne sarebbe invece una tendenza congenita.
Presupposto inevitabile per potere sostenere ciò è il riuscire a porsi da un punto di vista almeno in parte esterno a quello di tale “scienza” cioè del materialismo storico e dialettico, senza tuttavia screditarla del tutto come esige il neoliberalismo attualmente dominante.
In effetti, è a tal scopo che da tempo sono impegnato a elaborare quello che chiamo un materialismo politico e sperimentale ( e che ho in parte esposto nel libro L’amore della politica. Pensiero, passioni e corpi nel disordine mondiale, Mucchi, Modena, 2014).
Da questa angolatura, il punto debole o uno dei punti più critici della tradizione marxista, sta nella categoria nell’interesse di classe. Perché? Perché, dicendo il tutto in poche scarne parole, secondo la stessa visione marxista l’interesse della classe operaia è tale solo per modo di dire: tale interesse è infatti concepito come “interesse universale”, tutto politico, volto alla scomparsa di ogni classe e quindi anche di ogni interesse di classe.
In effetti, se si suppone con Marx che solo la “rivoluzione proletaria” possa realizzare il cosiddetto interesse della classe operaia, se si suppone sempre con Marx che questa stessa Rivoluzione potrà avvenire solo grazie al sacrificio anche fisico di una enorme massa di operai, si comprende quanto poco tale interesse possa essere pensato e valutato alla stregua di ogni altro tipo di interesse socio-economico. Si tratta dunque di escludere che il motore essenziale di tutto quanto è stato fatto in nome del marxismo, del socialismo e del comunismo sia stato l’interesse della classe operaia.
Per cercare altrove questo motore mi sono ispirato, tra gli altri, ad un testo Albert Hirschman del 1977, The Passions and the Interests. Political Arguments For Capitalism Before Its Triumph (Princeton University Press), dove si spiega magistralmente che gli interessi economici non sono altro che passioni oggettivate, moderate, incanalate per l’ottenimento o la conservazione della proprietà su cose o denaro. Quella proprietà su cose e denaro che è esattamente ciò che il capitalismo difende e promuove realmente e che invece gli operai più coscienti, secondo lo stesso Marx, dovrebbero evitare di desiderare per assolvere al loro compito storico e politico.
Ne consegue che dal punto di vista di un materialismo politico e sperimentale se si vuol trovare ciò che è stato il vero motore del comunismo nel mondo non si deve analizzare il supposto interesse socio-economico della classe operaia, ma un insieme di passioni politiche: oltre quell’odio contro i capitalisti che gli operai più direttamente sono ovviamente portati a provare, l’amore, l’entusiasmo per un’idea di giustizia sociale universale e realmente sperimentabile.
Che dire dunque da questo punto di vista della costruzione del socialismo in Urss? Che essa può essere ripensata come risultato ottenuto grazie alla capacità dei comunisti di mobilitare non solo l’odio contro il capitalismo, ma sopratutto un entusiasmo senza precedenti per il primo regime mai prima edificato esclusivamente in nome della giustizia sociale.
E che dire del suo declino, poi del suo tracollo? Che essi sono da analizzare come conseguenze del progressivo imporsi all’interno dell’Urss e dei partiti ad essa fedeli della spoliticizzazione e dell’apatia comportati dalla visione economicista della giustizia sociale.
Da questa angolatura la storia del Partito bolscevico e di quelli della Terza internazionale risulta cruciale. In effetti, essi con le loro diverse correnti e i loro cambiamenti di strategia sono stati comunque fino ai primi anni ’30 i corpi organizzati più capaci di mobilitare le passioni operaie e popolari attorno all’idea e alla realtà di un regime integralmente socialista. Il fatto è che però attorno al ’36 dopo le “grandi purghe” e con la costituzione legale dello Stato dell’Urss questi stessi partiti, incluso quello sovietico, si sono trovati subordinati agli interessi di tale Stato. Ed è così che l’economicismo spoliticizzante ha cominciato a far degenerare questa esperienza.
Perché? Perché fino a che erano i Partiti comunisti, per definizione estranei ad ogni sistema legale, a volersi rappresentanti dell’interesse della classe, tale interesse poteva venire ripensato, a seconda delle diverse situazioni concrete, in funzione delle passioni da mobilitare sul piano politico. Ma quando tali Partiti hanno dovuto sottostare ad uno Stato guida legalmente strutturato come ogni altro Stato, anche l’interesse della classe operaia è divenuto concetto regolato e vincolato a commisurarsi con quegli interessi economici che gli Stati capitalisti rappresentavano effettivamente a loro modo.
Di qui la conversione anche a livello internazionale del militante comunista in funzionario, ligio esecutore delle direttive di Mosca, mentre all’interno dell’Urss le misure terroristiche della sempre più invadente burocrazia provvedevano alla creazione di un ceto medio in buona parte di estrazione operaia: condizione necessaria, questa, perché lo Stato socialista potesse stabilizzarsi e funzionare come rappresentante di un interesse socio economico maggioritario.
Quanti problemi potesse incontrare questo modello alla cui realizzazione era chiamato ogni Partito sul piano internazionale fu lo stesso Stalin a riconoscerlo verso la fine della sua vita, nel 1952. Ma -come già ricordato- anziché riconoscere le difficoltà politiche di concordare la prospettiva comunista con il rafforzamento ad oltranza di uno Stato socialista, egli insistette a definirli appunto “problemi economici”.
Nel frattempo, la teoria del crollo imminente o del declino in corso del capitalismo, elaborata e dibattuta nell’Urss e nella III Internazionale anche a seguito della crisi del ’29, aveva provveduto a far credere che il corso della storia avesse oramai irreversibilmente svoltato in favore del “socialismo reale” inteso come anticamera del comunismo. Di qui l’idea che ogni passione andasse subordinata alla fedeltà per la “patria del socialismo”.
Di qui l’ammissibilità di ogni accordo con qualsiasi governo o Stato capitalista ( vedi, tra i tanti, l’esempio del patto Molotov-Ribbentrop), mentre i primi “nemici di classe” venivano sempre più individuati proprio tra i militanti di sinistra dissidenti (vedi, tra i tanti, l’esempio della sistematica repressione da parte dei comunisti di tutte le altre politiche rivoluzionarie tentate durante la guerra di Spagna) .
Certo, questo orientamento economicista ci ha messo parecchio tempo prima di estenuare del tutto le passioni politiche che avevano reso possibile la stessa costruzione del socialismo in Urss. Lo dimostra la “grande guerra patriottica” condotta dal popolo sovietico contro i nazisti a prezzo di 20 milioni di morti. Lo dimostra il fatto che fu proprio col secondo dopoguerra che l'”entusiasmo delle masse per socialismo” si espanse globalmente in una misura senza precedenti.
Tuttavia, la malattia economicista alla fin fine, a partire dalla seconda metà degli anni ’70, ha avuto la meglio, lasciando senza parole i comunisti anche di fronte al crollo della loro prima “patria”.
A mo’ di conclusione, una quarta ed ultima ipotesi. Tale ipotesi riguarda le politiche di sinistra attualmente tentate o auspicate e più o meno ispirate ai modelli socialdemocratici del secondo dopoguerra. Da quanto fin qui argomentato si possono fissare alcuni punti.
In primo luogo, che se si ammette che tali modelli erano contemporanei al mezzo mondo ad imitazione sovietica, si dovrà anche ammettere che la ripresa di questi modelli sia oggi quanto meno anacronistica.
In secondo luogo, se si ammette che la costruzione dell’Urss ha cominciato a degenerare proprio quando si è integralmente statalizzata e legalizzata, si dovrà ammettere che pensare oggi di prendere, in parte e o in toto, il potere di uno Stato per attuare politiche di giustizia sociale, nel rispetto della legalità esistente, è ampiamente utopico.
In terzo luogo, se si ammette che la costruzione dell’Urss così come i successi mondiali del comunismo erano dovuti alla mobilitazioni delle passioni politiche quali l’odio per il capitalismo e l’entusiasmo per un’idea di giustizia sociale sperimentabile, si dovrà ammettere che oggi a mancare nel contrasto alle politiche neoliberali sono proprio le capacità di organizzare simili mobilitazioni e di concepire simili idee.
Se ci si chiede poi come si possono ottenere tali capacità non c’è che una risposta: provando ad organizzarsi per conoscere e pensare cosa pensano le popolazioni che più soffrono del capitalismo. A una condizione però: di non organizzarsi in Partito o per lo meno in un partito che, come dice la parola, si pone inevitabilmente come “parte” di uno Stato la quale vi rappresenta un insieme di interessi economici.
Questa storia infatti si è già realizzata ed è già degenerata.
Intervento in vista del Convegno internazionale del 10 ottobre che si terrà a Lisbona dal titolo “Transitions, Trajectories, Languages and Structures in times of change”. È stato pubblicato su Inchiesta online il 30 settembre

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