Se la riforma costituzionale diventa spot: analisi della scheda referendaria

4 Ottobre 2016 /

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di Enzo Palumbo
In questi giorni stiamo assistendo a vivaci polemiche in ordine al quesito che si presume possa comparire sulle schede del referendum prossimo venturo, traendo inevitabile spunto dallo spot pubblicitario del Presidente del Consiglio nel corso dello scontro televisivo su La7 con Marco Travaglio, allorché ha mostrato in tv il fac-simile della scheda da lui immaginata per il referendum costituzionale, il cui decreto d’indizione, in quel momento, non era stato ancora pubblicato sulla Gazzetta ufficiale, sulla quale sarebbe comparso solo il giorno dopo.
Per propinare ai telespettatori, con una sorta di messaggio subliminale, la sua lettura della “deforma” costituzionale, Renzi ha enfatizzato il testo della scheda referendaria, che pedissequamente riporta l’intitolazione del ddl costituzionale, che recita: “Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione”.
Intitolazione, è appena il caso di dirlo, è passata in parlamento senza che le opposizioni, che non se n’erano accorte, facessero una piega, non avendo ben compreso di quanta e lungimirante furbizia fosse capace il premier. Tuttavia, siccome tra furbizie legislative, immaginario televisivo e realtà giuridica c’è sempre qualche differenza, ci è sembrato il caso di fare qualche verifica, per vedere come stanno effettivamente le cose sulla base della legge che regola il referendum.

In proposito, l’art. 4 della L. 352-1970 recita testualmente: “La richiesta di referendum di cui all’art. 138 della Costituzione deve contenere l’indicazione della legge di revisione della Costituzione o della legge costituzionale che si intende sottoporre alla votazione popolare, e deve altresì citare la data della sua approvazione finale da parte delle Camere, la data e il numero della Gazzetta Ufficiale nella quale è stata pubblicata”.
A questo punto l’Ufficio costituito presso la Corte di Cassazione, nel predisporre il modello di verbale per le richieste referendarie, ha tralaticiamente riprodotto l’intera intitolazione del ddl approvato dalle Camere.
Per la verità, avrebbe anche potuto farne a meno, e i richiedenti il referendum, che pure avrebbero potuto accorgersi della tendenziosità di quel richiamo, nulla hanno eccepito; e tuttavia, almeno sino a quel punto, nulla quaestio, perché il verbale con cui è stato richiesto il referendum è atto che riguarda esclusivamente quei richiedenti, e non si riverbera necessariamente sul corpo elettorale, non essendo scritto da nessuna parte che il testo del quesito debba necessariamente essere riprodotto sulla scheda di votazione.
Infatti, l’art. 16 della legge 352-1970, non richiama il precedente articolo 4, e non ne riproduce la dizione, ma stabilisce che la formula destinata a finire sulla scheda deve avere il seguente testo: “Approvate il testo della legge di revisione degli articoli… della Costituzione, concernenti…, approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale numero 88 del 15 aprile 2016?».
Sono evidenti le differenze tra le due tipologie di nuova normativa costituzionale (revisione della Costituzione e altre leggi elettorali), e tra la le due norme che rispettivamente regolano la richiesta e la scheda referendaria. Per fermarci qui solo a quest’ultimo aspetto, mentre la richiesta referendaria deve contenere, tra l’altro, “l’indicazione della legge di revisione”, e qui ci può anche stare il riferimento alla titolazione del ddl, la scheda referendaria deve invece contenere l’elencazione “degli articoli” revisionati e di ciò che essi “concernono”, vale a dire della materia effettivamente revisionata.
E, se la specifica indicazione di tutti i 47 articoli toccati dalla riforma risultasse eccessivamente lunga e farraginosa per una scheda referendaria, si potrebbe, pur con qualche forzatura, limitare il riferimento ai soli Titoli della Costituzione interessati dalla riforma. Illuminante in proposito è il confronto con la formulazione, sobria e neutrale, del quesito relativo alla riforma del 2006, che semplicemente recitava: “Approvate il testo della legge costituzionale concernente “Modifiche alla Parte II della Costituzione” approvato dal Parlamento e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 269 del 18 novembre 2006?”.
Anche allora si riduceva il numero dei parlamentari (518 deputati, 252 senatori) mantenendone però l’elezione diretta; e anche allora il bicameralismo da paritario diveniva differenziato, tuttavia restando equilibrato allorché consentiva a ciascuna camera di potere riesaminare le leggi di competenza dell’altra; e anche allora il rapporto fiduciario col governo era riservato alla Camera, che, eletta sulla base della coeva legge 270-2005 (il c. d. porcellum) finiva per introdurre il premierato, senza tuttavia i furbeschi sotterfugi della riforma del 2016, che tende invece a introdurlo egualmente, ma senza dirlo.
E comunque, in quel caso, il quesito comparso sulla scheda referendaria non suscitò alcun problema, anche se riproduceva il titolo del ddl riformatore, sulla considerazione che esso era assolutamente neutro e faceva riferimento all’intera Parte II della Costituzione. Insomma, una riforma, quella del 2006, sbagliata, ma che almeno appariva chiara negli intenti e nel modo di proporsi, senza alcun riferimento a capziose formulazioni, buone per captare la benevolenza degli elettori.
Quella di oggi, anch’essa sbagliata nel merito, porta con sé l’aggravante di una presentazione sotto mentite spoglie, attraverso un’intitolazione che affastella cose diverse:

  • a) alcune vere (riduzione del numero dei parlamentari, soppressione del CNEL, revisione del titolo V);
  • b) altre parzialmente vere o parzialmente false, che è poi la stessa cosa (superamento del bicameralismo paritario);
  • c) e infine una cosa assolutamente generica e fuori posto (contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni), che non dovrebbe proprio starci perché non “concerne” alcuna specifica norma della Costituzione, mentre l’irrisorio contenimento dei costi  sarebbe solo la conseguenza delle altre titolazioni (circa 40 mln. dalla riduzione del numero dei senatori, e circa 9 ml. dall’abolizione del CNEL).

Se la scheda referendaria recasse effettivamente il capzioso quesito che è stato preannunziato e che è poi stato inserito nel DPR pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, essa veicolerebbe nell’opinione pubblica un messaggio tendenzioso e demagogico, politicamente anche volgare, al solo scopo di vellicare le pulsioni populistiche che si aggirano nel Paese e raccattare qualche voto in più speculando sulla (presunta) credulità dei cittadini.
Correttezza istituzionale vorrebbe che il quesito che comparirà sulla scheda referendaria, se si vuole semplificare, faccia esclusivo riferimento ai soli Titoli (I°, II°, III°, V° e VI°) interessati dalla riforma, con relative norme finali e transitorie. E, se invece si riterrà di dovere entrare nel dettaglio (come richiede la legge),si dovranno citare anche tutti gli articoli revisionati, alcuni dei quali particolarmente rilevanti e invece neppure menzionati nel titolo del ddl.
È il caso del referendum propositivo (la cui regolamentazione è però demandata a una futura legge costituzionale), e delle proposte di legge d’iniziativa popolare (le cui firme vengono triplicate, mentre la loro effettiva trattazione viene rinviata ai futuri regolamenti parlamentari); in entrambi i casi, modifiche di là da venire.
Ma è anche il caso di altre modifiche ben più rilevanti e d’immediata attuazione, come quelle riguardanti le modalità di elezione del Presidente della Repubblica e dei cinque membri della Corte Costituzionale di derivazione parlamentare, che sono state invece taciute per evitare d’ingenerare contrarietà nell’opinione pubblica.
Insomma, nella titolazione del ddl di riforma c’è qualcosa che non doveva esserci, e manca invece qualcosa che doveva starci; sin qui, poco male, ma ciò che è inammissibile è che si utilizzi quella tendenziosa titolazione per ingannare gli elettori.
A questo punto, non essendo previamente intervenuto l’Ufficio Centrale costituito presso la Cassazione (in analogia a quanto previsto nel caso del referendum abrogativo), ed essendo purtroppo la questione sfuggita agli Uffici della Presidenza della Repubblica (nel cui Decreto non viene neppure citato l’art. 16 della legge 352-1970), resta la possibilità per i comitati referendari interessati e per qualche cittadino-elettore di impugnare il decreto d’indizione in sede giudiziaria, nel tentativo di evitare che la domanda che comparirà sulla scheda referendaria possa tradursi uno spot pubblicitario chiaramente parziale e fuorviante.
L’ultima parola resterà poi ai cittadini, che avranno la possibilità di respingere comunque il quesito referendario con un sonoro “NO”, anche per far capire che, se al governo sono arrivati i furbi, non è che gli italiani siano fessi.
Questo articolo è stato pubblicato su Fondazione critica liberale il 2 ottobre 2016

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