Cattolici e Costituzione: le vere cifre della democrazia

19 Settembre 2016 /

Condividi su

Referendum - Comitato per il no
Referendum – Comitato per il no

di Raniero La Valle
Non c’è bisogno di essere cattolici per avere buone ragioni per opporsi alla riforma costituzionale voluta dal governo Renzi. Basterebbero le ragioni futili e pretestuose che sono avanzate dai propagandisti del SI per comprendere le ragioni del rifiuto. Tra questi argomenti c’è quello del risparmio dei costi della democrazia, con il pietoso corollario che i soldi così risparmiati verranno finalmente distribuiti ai poveri,
Ma la tesi del risparmio è stata già demolita dalla Corte dei Conti, che ha mostrato come il risparmio degli stipendi dei senatori sarebbe di solo 58 milioni l’anno, mentre tutta la macchina del Senato, che continuerebbe ad esistere, ne fa spendere 550 milioni. Altre stime scendono sotto i 50 milioni di minori spese, neanche un euro per ogni italiano avente diritto al voto. Per cui si potrebbe coniare uno slogan: vuoi risparmiare 90 centesimi l’anno? Prendili dai senatori e manda a casa il Senato: che per sostenere il passaggio al monocameralismo non è un grande argomento.
Ma al di là delle cifre, la domanda è perché ci vogliono far comprare meno democrazia. Infatti di questo si tratta: mettere in Costituzione meno democrazia, come se in l’Italia ce ne fosse troppa, quando invece si sta esaurendo. L’altra tesi volgare a favore della riforma è che spogliando il Senato di una parte dei suoi poteri legislativi, si risparmierebbe il tempo della doppia lettura di molte leggi che oggi fanno la navetta tra Camera e Senato.

Ma la tesi dell’accelerazione legislativa è smentita dalla stessa riforma che ha lasciato al Senato una quantità di competenze legislative, che addirittura, su semplice richiesta del nuovo Senato, si può estendere a tutte le leggi, in un ginepraio di procedure che creeranno insolubili e interminabili conflitti di competenza tra le due Camere. L’unica cosa certa è che al Senato verrà tolto il potere di dare e togliere la fiducia al governo, sicché il governo dipenderà solo da mezzo Parlamento, e non dal Parlamento intero, e la democrazia sarà in tal modo dimezzata e deforme.
Ma al di là dei tempi che si allungano, la vera domanda è perché vogliono togliere al governo l’incomodo di avere la fiducia anche dal Senato invece che averla dalle due Camere come vuole l’attuale Costituzione. La ragione è che il potere vuole un Parlamento unanime e consenziente e perciò lo divide in due come il Visconte dimezzato di Italo Calvino.
Ma noi abbiamo visto quali sono i disastri che possono venire da un Parlamento artificialmente unanime e consenziente, privo di ogni dialettica politica. Fu pressoché unanime e consenziente il Parlamento che appoggiò la linea della fermezza del governo Andreotti durante il sequestro di Aldo Moro, decidendo per la morte di Moro, con le conseguenze tragiche per l’Italia che ancora paghiamo.
Fu pressoché unanime e consenziente il Parlamento che decise nel 1991 la partecipazione dell’Italia alla prima guerra del Golfo, così ripristinando l’uso della guerra, che era stata ripudiata, con la conseguenza di avere aperto la strada a tutte le guerre successive, fino alla “terza guerra mondiale”, come la chiama il papa, che oggi stiamo combattendo.
E fu proprio un Parlamento remissivo e consenziente, che dopo la prima guerra all’Iraq approvò il nuovo Modello di Difesa proposto dal governo e dalla NATO, dopo che era venuto meno il nemico sovietico, contro cui era rivolto il vecchio strumento militare. Il nuovo Modello di Difesa individuava nell’Islam il nuovo nemico e prendeva come paradigma del confronto anche militare tra l’Occidente e i suoi nuovi avversari lo schema del conflitto tra Israele e Palestina.
Al contrario è proprio quando nel Parlamento le posizioni si articolano e si contrastano, che si fanno le scelte e le leggi migliori, come si potrebbe dimostrare con numerosi esempi di leggi lesive e sbagliate che sono state rifatte e corrette dalla seconda lettura del Senato, come ad esempio avvenne per la legge sull’aborto, ancora oggi considerata la più accettabile tra tutte le leggi possibili sulla materia.
Ci sono poi altri argomenti futili e bizzarri che vengono spesi a favore della riforma, come il fatto che da vent’anni ci stanno provando e non ci sono ancora riusciti, come se alla fine anche la cosa peggiore dovesse essere fatta perché nel frattempo sono passati tanti anni, o l’argomento che sulla riforma il Presidente del Consiglio ha giocato il tutto per tutto, anche se poi se n’è pentito.
Ma abbandonando la conta delle ragioni inesistenti, veniamo al tema dei Cattolici e della Costituzione, e del perché i cattolici questa Costituzione la debbano attuare e difendere.
La Costituzione è la cosa più importante che i cattolici italiani abbiano fatto nel Novecento, prima del Concilio Vaticano II. Le altre cose non furono buone. Non lo fu il non expedit, con cui i cattolici, sposarono la questione romana e abbandonarono la questione nazionale; non fu buona l’ideologia dell'”uccidere senza odio” alla quale furono formati i giovani cattolici della GIAC dall’interventismo nella prima guerra mondiale fino alle guerre fasciste. C’è su questo un libro molto bello di Francesco Piva, un ex dirigente della GIAC, fatto in collaborazione con l’Istituto Paolo VI per la storia dell’A.C. e del movimento cattolico in Italia [1].
La GIAC era un’organizzazione di massa e il libro documenta il tipo di educazione che veniva impartita ai giovani cattolici, una formazione in cui la repressione sessuale veniva unita e per così dire compensata con una esaltazione della virilità volta all’esercizio delle virtù militari, per preparare combattenti per le guerre della patria, capaci appunto di uccidere senza odio; si trattava di una catechesi sacrificale e di guerra, che insegnava ad uccidere con l’alibi della religione e della morale. Oggettivamente era una pedagogia al fascismo, che infatti la usò dopo il 1922; quella non fu una cosa buona, e nemmeno fu buono il Concordato con Mussolini, come non lo fu la debole dissociazione dalle leggi razziali.
La cosa migliore, prima del fascismo, fu invece la geniale elaborazione di Luigi Sturzo e la straordinaria impresa democratica del partito popolare italiano, ma furono sconfitte. E la cosa migliore dei cattolici italiani prima della Costituente fu poi la partecipazione alla resistenza. Ed è proprio da questo filone del cattolicesimo italiano, il filone della democrazia cristiana di Romolo Murri, del popolarismo di Luigi Sturzo, della Resistenza delle Fiamme Verdi, di Teresio Olivelli, di Franco Salvi, di Giuseppe Dossetti e fu dal pensiero dei professorini dell’Università Cattolica, che grazie anche all’incontro con comunisti, socialisti e laici, venne fuori il miracolo della Costituzione Italiana.
Ma esso non fu solo il prodotto di una minoranza cattolica, perché la Chiesa stessa condivise e sostenne quella scelta; lo stesso papa Pio XII nel radiomessaggio natalizio del sesto Natale di guerra, nel 1944, aveva fatto la scelta della democrazia, dicendo che forse, se avessero avuto la democrazia i popoli avrebbero potuto impedire la guerra; e il suo prosegretario di Stato, il Sostituto Mons. Montini, tenne con Dossetti costanti rapporti lungo tutto l’iter del dibattito alla Costituente, in particolare accettando il nuovo rapporto tra Chiesa e Stato sancito dall’art. 7, nonché la libertà religiosa e il riconoscimento delle altre religioni stabiliti dall’art. 8. E quella non fu affatto una cosa scontata.
A chi legga oggi gli articoli 7 e 8 della Costituzione, che proclamano l’indipendenza nel proprio ordine dello Stato e della Chiesa e la libertà per tutte le religioni, potrebbe sembrare trattarsi di cose ovvie, e relative ad un ambito ristretto della vita giuridica e sociale, tanto più in un tempo in cui la religione non sembra più essere un problema per molte persone nella società secolarizzata. Eppure intorno a queste norme si accesero grandi passioni e forti contrasti, si formarono schieramenti inediti, e si raggiunse uno dei livelli più alti del dibattito costituzionale.
In effetti si realizzò una svolta, perché si veniva da una storia, durata 1700 anni, dall’imperatore Costantino, in cui la religione non era stata affatto distinta dallo Stato, il pluralismo e l’eguale libertà per tutte le fedi non erano stati affatto riconosciuti, e pur nella lotta tra poteri politici e religiosi, si era formata una unità organica tra cultura, politica, istituzioni e Chiesa. Si tratta di quel sistema politico-religioso che è stato chiamato regime di Cristianità. Non si trattava peraltro di un fenomeno proprio del solo Occidente, perché anche fuori di esso altre religioni ed altre società si erano intrecciate a formare regimi confessionali, come ad esempio si era visto nello shintoismo giapponese fino alla catastrofe della seconda guerra mondiale, e come oggi accade ancora nelle forme politico-confessionali dell’ebraismo e dell’Islam.
Nella storia dell’Occidente, ad aprire i conti col regime di cristianità, agli albori dell’età moderna, sono stati gli stessi cristiani. Furono proprio loro, all’inizio, che passarono la parola dai teologi ai giuristi; poi venne l’illuminismo che portò a termine l’impresa con la costruzione della società laica. Le Chiese reagirono giocando la carta degli Stati confessionali, il Papato rispose confutando le libertà moderne, rivendicando l’esclusiva del potere spirituale sulle coscienze e cercando accordi con i troni o con i fasci; ma poi la Chiesa cattolica stessa sarebbe arrivata, col Concilio Vaticano II, a riconoscere come provvidenziale la fine dell’età costantiniana, e da ultimo sarebbe giunto papa Francesco a proclamare l’uscita della Chiesa dal regime di Cristianità e ad aprirne le strade: un cambiamento epocale destinato a restituire vitalità al cristianesimo e a liberare le potenzialità di tutte le religioni in ordine alla salvezza degli esseri umani.
Il colpo di genio della Costituzione del ’48 è stato di anticipare la fine della Cristianità, in ciò anticipando il Concilio, senza perdere il cristianesimo, in ciò anticipando papa Francesco, e dando libertà ad ogni religione con i suoi statuti, postulando la pace tra le fedi.
È avvenuto così che la formula consacrata nell’art. 7 della Costituzione si ritrova pressoché identica, diciotto anni dopo, nella formula della Costituzione pastorale “Gaudium et Spes” del Concilio (n. 76): “la comunità politica e la Chiesa sono indipendenti e autonome l’una dall’altra nel proprio campo “; e la formula dell’art. 8 secondo cui “tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge” e “hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti”, e i loro rapporti sono regolati sulla base di intese con lo Stato, sembra anticipare sul piano del diritto lo spirito con cui papa Francesco, nella Messa del giovedì santo del 2016, dopo aver lavato i piedi a credenti di diverse fedi, ha detto loro: “Qui c’è un gesto, tutti noi insieme, musulmani, indù, cattolici, copti, evangelici… ma fratelli, figli dello stesso Dio, che vogliono vivere in pace, integrati”; ed era un gesto del tutto opposto a quello sanguinario compiuto tre giorni prima dagli attentatori di Bruxelles.
Le dure opposizioni all’art. 7 vennero alla Costituente e continuarono anche dopo e anzi continuano anche oggi, da parte di quanti a quella norma imputano di “costituzionalizzare” i Patti lateranensi, dando agli accordi stipulati con Mussolini la stessa forza della Carta. Ma così non è, Non è stato costituzionalizzato il contenuto dei Patti, ma la modalità del rapporto pattizio, come è stato affermato dalla Corte e dimostrato dal fatto che molte norme del Concordato sono cadute in forza di leggi ordinarie e la stessa controversa introduzione del divorzio non incontrò alcun ostacolo di natura costituzionale. Quello che dice la Carta è che Stato e Chiesa sono realtà distinte, il loro è un rapporto di alterità e i loro rapporti, per decisione comune, non sono rapporti di forza, ma consensuali e liberi. E di fatto, nel 1984, a norma dell’art. 7, veniva pattuito un nuovo Concordato, nel quale il presupposto del regime di Cristianità (la religione cattolica come religione di Stato) era anche formalmente abrogato.
I protagonisti della storica impresa dell’art. 7 furono soprattutto due. Il primo fu il cattolico Giuseppe Dossetti, che veniva dalla Resistenza e godeva dell’appoggio del Vaticano, e in particolare di mons. Montini, come Sostituto del Segretario di Stato. E l’altro protagonista fu il comunista Togliatti, che comprese come la prospettiva di una società democratica, che egli voleva orientata al socialismo, non si potesse perseguire che nel quadro di una pace religiosa, e forse non senza l’apporto del cristianesimo, di cui qualche anno dopo, nel discorso di Bergamo, doveva riconoscere il ruolo nella promozione del “destino dell’uomo”.
Per far passare questa linea Togliatti dovette affrontare una severa opposizione nel suo partito e contrapporsi nel voto alla Costituente ai socialisti e agli altri “laici” che gridavano alla clericalizzazione dello Stato; ma il seguito della storia ha dimostrato che Dossetti e Togliatti avevano visto giusto, e anche se il Concordato è stato poi motivo di cattive tentazioni per quella parte di Chiesa rimasta attaccata ai vecchi sogni di potere, bisogna dire che la laicità della Repubblica e dello Stato hanno trovato nella Costituzione un sicuro presidio e la massima salvaguardia.
Bisogna anche dire che la Costituzione nell’anticipare la fine della Cristianità, è riuscita ad esprimere, nella laicità, i valori cristiani più alti. Essa infatti in molteplici modi, e grazie anche all’apporto di culture e di storie diverse, marxiste, cattoliche, liberali, ha ritrovato la forza sovversiva del cristianesimo. Il fatto che essa all’art. 1 dichiari la Repubblica fondata sul lavoro, realizza il rovesciamento cristiano dei servi in signori. Nella società signorile, dall’antichità fino all’età moderna, il lavoro era esclusivamente addossato al servo, e di fatto era un lavoro schiavo.
Nemmeno il cristianesimo paolino era riuscito a ribaltare questa antropologia. Ma nella Costituzione il lavoro diventa sovrano. Esso non solo fonda la Repubblica, ma esprime e realizza la dignità dell’uomo, e perciò del popolo sovrano a cui egli appartiene. Questo vuol dire che sono implicite nel dettato costituzionale le politiche di piena occupazione, e perciò il lavoro come variabile accidentale del mercato, qual è nelle attuali forme del liberismo selvaggio, è contro la Costituzione. Così, il fatto di mettere all’art. 2 i diritti inviolabili della persona, singola e associata, vuol dire che nulla può essere anteposto all’uomo, immagine di Dio; così, dire all’art. 3 che la Repubblica rimuove gli ostacoli, anche economici e sociali, che impediscono alla vita di realizzarsi come umana, vuol dire vincolare il potere non solo alla giustizia ma alla misericordia; c’è infatti un “pieno sviluppo della persona umana”, quale è voluto dalla Costituzione, che a una democrazia formale non interessa, ma che una democrazia sostanziale ha il compito di promuovere, con una politica che prenda a cuore la sorte di tutti, a cominciare dai poveri, in forza di quella solidarietà che è un altro nome della democrazia, ed è un altro nome della misericordia.
Ci dicono, i riformatori della carta, che non c’è ragione di preoccuparsi perché questi principi e valori che vengono affermati nella prima parte della Costituzione, non vengono toccati, in quanto essi sarebbero scritti solo in questi primi articoli che vengono lasciati immutati, e non anche nei ben 47 articoli, su un totale di 139, che vengono modificati nella seconda parte.
Ma ciò non è vero. Certo quei principi, quei valori, quelle libertà, quei diritti fondamentali – civili, etico-sociali, economici e politici – sono affermati in quella carta d’identità della Repubblica che sono i primi dodici articoli e che è tutta la Parte prima della Costituzione. Essi però trovano poi la loro strumentazione, la loro possibilità di esercizio, la loro garanzia nell’ordinamento qual è strutturato nella seconda parte della Costituzione. Senza queste norme che la realizzano, la Costituzione sarebbe come una carta d’identità a cui non corrisponde la persona, sarebbe come un’aquila a cui venissero strappati gli artigli.
Sarebbe inutile parlare del lavoro, del popolo sovrano, della libertà religiosa, del ripudio della guerra, della costruzione di un ordine di pace e di giustizia tra le nazioni, se si demolisse l’architettura comprendente il governo parlamentare, il pluralismo dei partiti, delle elezioni che salvaguardino la proporzionalità tra elettori e rappresentanza, il circuito della fiducia, l’articolazione regionale, le garanzie giurisdizionali e tutto il resto; che è appunto ciò che oggi è investito dal terremoto della riforma.
I promotori della riforma dicono che il nuovo sistema sarà migliore, più efficiente, più rapido, più economico di quello oggi esistente. Lo si vedrà in sede di collaudo. Sennonché, come dice la principale partigiana della riforma, la ministra Boschi, possono esserci delle cose sbagliate nella nuova Costituzione ma si potranno correggere in seguito. Ma il terremoto potrebbe arrivare prima di fare le correzioni e le necessarie modifiche, come di solito accade in Italia con i terremoti, e d’altra parte una Costituzione che rimanga sempre puntellata e in restauro, non è più una Costituzione affidabile, non è più una Costituzione rigida, diventa come una legge ordinaria in balia dell’ultima maggioranza parlamentare e di qualsiasi governo.
Perciò noi pensiamo che la Costituzione vada salvata perché rimanga almeno un punto fermo in una società e in un mondo che sembrano marciare rapidamente verso nuove catastrofi.
È paradossale che, mentre l’Italia è divisa, si rompa l’unica cosa che ancora la tiene unita, la Costituzione; è paradossale che mentre i Trattati europei stanno portando al collasso l’Europa, che invece di abbattere i muri li costruisce perfino sul mare, si invochi l’Europa per sovvertire in Italia il solo patto che ancora funziona e che fonda la pace sociale tra i cittadini e la Repubblica; è paradossale e insensato che mentre le cose vanno male, l’Italia è a crescita zero, la disoccupazione giovanile è al 39% e i cittadini non hanno più alcuna fiducia nella politica disertando anche le urne, la classe politica manometta l’unica cosa che va bene e che non era contestata da nessuno, la Costituzione del ’47, per sostituirla con un prodotto scadente, fabbricato da un Parlamento in crisi di legittimità, perché eletto con una legge che la Corte Costituzionale aveva dichiarato infedele e di fatto scaduta. Sicché se il referendum non bloccherà questa operazione, avremo una Costituzione – caso unico in Occidente – fatta da un Parlamento che andava combattendo ed era morto.
Nota

  • [1] hFrancesco Piva, “Uccidere senza odio, pedagogia di guerra nella storia della Gioventù cattolica italiana (1868-1943)”, Franco Angeli Editore, 2015, Milano

Questo testo è il discorso tenuto da Raniero La Valle a Rovigo il 10 settembre 2016

Aiutaci a diffondere il giornalismo libero e indipendente.

Articoli correlati