di Loris Campetti
È arrivato l’ambasciatore americano a spiegare ai sudditi italiani che se non approveranno lo smantellamento della Costituzione imbastito da Renzi, le imprese straniere non investiranno una lira in Italia. Non ha però aggiunto – purtroppo per lui non poteva farlo – che invece, in caso di vittoria del Sì, la multinazionale Usa Alcoa sarebbe pronta a riaprire lo stabilimento del Sulcis riassumendo tutti i lavoratori che aveva licenziato. Naturalmente, ha aggiunto il mitico ambasciatore, gli Usa rispetteranno la volontà del popolo italiano.
Non ha precisato, non sarebbe stato carino rinvangare il passato golpista del paese più democratico del mondo, che Washington non avrebbe fatto come nel Cile di Salvador Allende nel 1973. Semmai John Phillips (i suoi nonni emigrati dall’Italia si chiamavano Filippi, ma volete mettere Phillips?) voleva scimmiottare la sua predecessora Clare Boothe Luce, il primo ambasciatore donna degli Usa, che negli anni Cinquanta pretese da Valletta la cacciata di tutti i comunisti dalle fabbriche Fiat in cambio di aiuti, una sorta di piano Marshall metalmeccanico. Parafrasando il dittatore messicano Porfirio Diaz, si potrebbe dire: povera Italia, così lontana da Dio, così vicina agli Stati uniti.
Questa volta Matteo Renzi, o magari qualche suo portaborse, ha esagerato. Dopo aver schierato per il Sì il presidente di Confindustria Boccia e il deus ex machina della Fca (già Fiat) Marchionne, Buffon e Benigni, Farinetti e Gennaro Migliore, in attesa che sciolgano le riserve anche Pisapia e Zedda, ecco che il rottamatore sbatte sul tavolo da gioco il carico da 11: l’ambasciatore americano Filippi (pardon, Phillips). E per fare buon peso, anche il portavoce della cancelliera tedesca Merkel.
Troppo, persino per il mite presidente Mattarella costretto a ricordare che la sovranità sulla (contro)riforma costituzionale è tutta e solo del popolo italiano. Finirà che saremo costretti a scandire nuovamente yankee go home, come quando eravamo piccoli e un po’ discoli. E presi dall’entusiasmo di allora, a cantare “Buttiamo a mare le basi americane”.