Vi racconto tutti i trambusti su Italicum e referendum

8 Agosto 2016 /

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di Francesco Damato
Per quanto modesta, se non la si vuole chiamare addirittura banale, trattandosi dell’ovvio riconoscimento che qualsiasi legge, anche quella elettorale, è “nella disponibilità del parlamento”, che la può modificare come e quando vuole, l’apertura fatta da Matteo Renzi alla possibilità, appunto, di cambiare le regole per l’elezione della Camera sta provocando una slavina.
Fra quanti hanno interesse a cambiare l’Italicum, come si chiama questa benedetta legge, o ne hanno reclamato la modifica per votare sì al referendum confermativo sulla riforma costituzionale, come l’editore e il fondatore della Repubblica di carta, cioè Carlo De Benedetti ed Eugenio Scalfari, ma anche le minoranze del Pd, si è aperta una gara a chi alza di più il prezzo.
Mentre De Benedetti e Scalfari sembrano potersi accontentare di un impegno pubblico e affidabile del presidente del consiglio, di cui Scalfari qualche settimana fa indicò anche le procedure, con tanto di dichiarazione da depositare – se non ricordo male – nelle mani dei presidenti della Repubblica e delle Camere, il senatore piemontese Federico Fornaro, della minoranza del Pd, ha chiesto ai capigruppo del suo partito di prendere subito l’iniziativa. Cioè di “aprire un tavolo” di trattativa con gli altri gruppi e presentare un disegno di legge da discutere. Altro che limitarsi al dibattito già calendarizzato alla Camera in settembre su una mozione promossa dalla sinistra vendoliana sulla necessità di modificare l’Italicum.
Ma i capigruppo parlamentari del Pd non sembrano avere tanta voglia di muoversi così in fretta. Un po’ perché diffidano della possibilità di trovare un’intesa praticabile, provvista cioè dei numeri necessari per tradurla in una vera e propria legge di modifica, e temono che un fallimento del confronto, o della trattativa, finisca non per svelenire ma per avvelenare di più la campagna referendaria sulla riforma costituzionale.

E un po’ perché, come ha detto con particolare chiarezza il capogruppo piddino della Camera Ettore Rosato, sarebbe meglio affrontare questo passaggio parlamentare e politico dopo il referendum costituzionale. La cui data peraltro, a leggere i giornali e, in particolare, cronache e retroscena sull’ultimo incontro fra i presidenti della Repubblica e del Consiglio, prima della partenza di Renzi per il vertice della Nato a Varsavia, è diventata l’araba fenice: l’uccello mitologico noto ormai come quello “che vi sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa”.
Nessuno è più in grado di giurare sul 2 ottobre indicato una volta dallo stesso Renzi per mandare gli italiani alle urne sulla riforma della Costituzione, o sulle ultime due domeniche di quello stesso mese, o in novembre, o ancora più in là, per mettere in sicurezza, prima di un’eventuale sconfitta di Renzi e della conseguente crisi di governo, l’inderogabile legge finanziaria.
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A favore della precedenza del referendum costituzionale sulla modifica alla legge elettorale si è appena pronunciata – a questo punto non si capisce più bene se d’accordo con Renzi o no – la ministra delle riforme Maria Elena Boschi con un argomento in apparenza convincente, ma destinato ad allungare il brodo e a moltiplicare i sospetti.
L’argomento della Boschi è questo: se approvata, la riforma costituzionale consentirà alla Corte Costituzionale di pronunciarsi sull’Italicum prima della sua concreta applicazione, cioè prima delle prossime elezioni politiche, anticipate o ordinarie che siano. Le Camere avrebbero così la possibilità di intervenire meglio sulla materia, regolandosi sul giudizio nel frattempo espresso dai giudici del Palazzo della Consulta. Dove tuttavia la nuova legge elettorale, come la Boschi sicuramente sa ma ha fatto finta di non sapere quando ha indicato il suo percorso più lungo, è già approdata per conto suo, su iniziativa della magistratura ordinaria, e regolarmente calendarizzata. Il primo appuntamento per l’esame della questione è stato annunciato per il 4 ottobre, giorno peraltro della festa di San Francesco, patrono d’Italia. Una scadenza sulla quale il presidente del Consiglio aveva mostrato di fare affidamento anche per sgomberare il campo della campagna referendaria d’almeno una parte dell’ordigno dell’Italicum, difendendo la legge con più convinzione se confermata dalla Corte Costituzionale o accettandone per dovere di ufficio gli eventuali tagli apportati dai giudici, già intervenuti appunto con le forbici sulla legge precedente, chiamata Porcellum.
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Un po’ per la complessità oggettiva della materia, un po’ per gli spazi di altrettanto oggettiva ambiguità della posizione del governo, fra le parole di Renzi, della Boschi, del critico ministro Dario Franceschini, che reclama la modifica dell’Italicum senza precisare ancora se prima o dopo il referendum, un po’ per un’abituale diffidenza verso tutti e tutto, le opposizioni hanno cominciato ad usare il lanciafiamme, che invece Renzi ha dismesso nelle polemiche con le minoranze del Pd.
I grillini, che parlano male dell’Italicum ma preferirebbero tenerselo – eccome – perché le recenti elezioni amministrative li hanno resi fiduciosi di poter replicare a livello nazionale, grazie appunto al premio di lista e non di coalizione previsto dalla legge elettorale della Camera, i successi conseguiti a Roma, Torino e altrove, hanno diffidato il governo e la maggioranza dal provocare la paralisi del Parlamento col tentativo di affrontare questa materia.
Il capogruppo di Forza Italia a Montecitorio, il solito Renato Brunetta, capace di scavalcare anche i grillini nell’azione di contrasto a Renzi, ne ha reclamato le dimissioni proprio in caso di cambiamento della legge elettorale, che pure il partito di Berlusconi reclama da tempo. Dimissioni, perché rischiando di poter vincere un referendum costituzionale svelenito dalla riforma dell’Italicum il presidente del Consiglio andrebbe comunque punito per il torto fatto alle Camere l’anno scorso, quando volle forzare loro le mani con la legge elettorale ricorrendo al voto di fiducia.
Figuriamoci se appresso a Brunetta non si lasceranno scappare l’occasione di muoversi i leghisti, i parlamentari della destra di Giorgia Meloni e persino, a sinistra, i vendoliani. Così vanno notoriamente le cose in Italia, dove si riesce o si cerca di spacchettare tutto: dai referendum costituzionali, come vedremo in un’altra occasione, alla logica.
Questo articolo è stato pubblicato da Formiche.net l’11 luglio 216

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