di Luigi Ferrajoli, Comitati Dossetti per la Costituzione
I contenuti sono l’aspetto più allarmante della nuova Costituzione. Si dice che con essa viene superato il bicameralismo perfettamente paritario. È vero. Ma il superamento del bicameralismo perfetto avviene con la sua sostituzione con un monocameralismo sommamente imperfetto. Imperfetto per due ragioni.
In primo luogo perché la seconda Camera non è affatto abolita, ma sostituita da un Senato eletto non dai cittadini, come vorrebbe il principio della sovranità popolare, ma dai Consigli regionali “in conformità” – non è chiaro in quali forme e grado – “alle scelte espresse dagli elettori”, e tuttavia dotato di molteplici competenze legislative. Contrariamente alla semplificazione vantata dalla propaganda governativa, ne seguirà un’enorme complicazione del procedimento di approvazione delle leggi. Basti confrontare l’attuale articolo 70 della Costituzione composto da una riga – “La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere” – con il suo nuovo testo, articolato in sette commi lunghi e tortuosi che prevedono ben quattro tipi di leggi e di procedure:
- a) le leggi di competenza bicamerale, come le leggi costituzionali, le leggi di revisione costituzionale, le leggi elettorali e altre importanti e numerose leggi sull’ordinamento della Repubblica;
- b) tutte le altre leggi, di competenza della Camera ma a loro volta differenziate, a seconda del grado di coinvolgimento del Senato nella loro approvazione, in tre tipi di leggi:
- b1) le leggi il cui esame da parte del Senato può essere richiesto da un terzo dei suoi componenti e sulle cui modificazioni la Camera si pronuncia a maggioranza semplice in via definitiva;
- b2) le leggi di cui all’articolo 81 4° comma, le quali vanno sempre sottoposte all’esame del Senato, che può deliberare proposte di modificazione entro quindici giorni dalla data di trasmissione;
- b3) le leggi di attuazione dell’articolo 117, 4° comma della Costituzione, che richiedono sempre l’esame del Senato e le cui modificazioni a maggioranza assoluta dei suoi componenti sono derogabili solo dalla maggioranza assoluta dei componenti della Camera.
È chiaro che questo pasticcio – quattro tipi di procedure, differenziate sulla base delle diverse materie ad esse attribuite – si risolve in un’inevitabile incertezza sui diversi tipi di fonti e procedimenti, ancorati alle diverse ma non sempre precise e perciò controvertibili competenze per materia. Il comma 6° del nuovo articolo 70 stabilisce che “i Presidenti delle Camere decidono, d’intesa tra loro, le eventuali questioni di competenza”. Ma come si risolverà la questione se i due presidenti non raggiungeranno un accordo? E comunque l’incertezza e l’opinabilità delle soluzioni adottate rimangono, e rischiano di dar vita a un contenzioso incontrollabile su questioni di forma che finirà per allungare i tempi dei procedimenti e per investire la Corte Costituzionale di una quantità imprevedibile di ricorsi di incostituzionalità per difetti di competenza.
Ma c’è soprattutto una seconda ragione, ben più grave e di fondo, che rende inaccettabile il monocameralismo imperfetto introdotto da questa revisione: la trasformazione della nostra democrazia parlamentare, provocata dalla legge elettorale maggioritaria n. 52 del 6 maggio 2015, in un sistema autocratico nel quale i poteri politici saranno interamente concentrati nell’esecutivo, e di fatto nel suo capo, ben più di quanto accada in qualunque sistema presidenziale, per esempio negli Stati Uniti, dove è comunque garantita la netta separazione e indipendenza del Congresso, titolare del potere legislativo, dal Presidente. Il sistema monocamerale infatti, in una democrazia parlamentare, implica un sistema elettorale puramente proporzionale, in forza del quale i governi e le loro maggioranze si formano in maniera trasparente in Parlamento, quali frutti del dibattito e del compromesso parlamentare, e restano costantemente subordinati alla volontà della Camera della quale il governo è espressione.
Solo così il monocameralismo è un fattore di rafforzamento, anziché di emarginazione del Parlamento: solo se l’unica Camera – la Camera dei deputati – viene eletta con un sistema elettorale perfettamente proporzionale, in grado di rappresentare l’intero arco delle posizioni politiche, di garantire perfettamente l’uguaglianza del voto, di riflettere pienamente il pluralismo politico e, soprattutto, di assicurare costantemente la presenza e il ruolo di controllo delle forze di opposizione e di minoranza.
È stato solo questo il monocameralismo proposto in passato dalla sinistra: quello che, grazie alla massima rappresentatività ed efficienza decisionale dell’unica Camera, alla sua composizione pluralista e alla forza delle minoranze e delle opposizioni, assicura quella che chiamavamo la “centralità del Parlamento”, cioè il suo ruolo di indirizzo politico e di controllo sull’attività del governo quale si conviene a una democrazia parlamentare.
Al contrario, il monocameralismo imperfetto generato dall’azione congiunta della costituzione Renzi-Boschi e della legge elettorale iper-maggioritaria del 2015, votata anch’essa con innumerevoli forzature e da ultimo con l’imposizione della fiducia, si risolve in una pesante distorsione sia della rappresentanza politica che delle funzioni di controllo e di indirizzo spettanti al Parlamento. Questa nuova legge elettorale, il cosiddetto Italicum, è infatti sostanzialmente una riedizione del vecchio Porcellum, con due lievi miglioramenti che non ne annullano il difetto di rappresentatività:
- il primo è l’assegnazione del cospicuo premio di maggioranza del 54% dei seggi (340 su 630) alla lista che raggiunge più del 40% dei voti oppure, se nessuna lista raggiunge tale soglia, alla lista vincente nel ballottaggio tra le due liste maggiormente votate;
- il secondo è la previsione di liste elettorali brevi, in gran parte pregiudicato, tuttavia, dalla sostanziale nomina dall’alto di tutti i capolista.
È chiaro che con un simile sistema elettorale, che assegna automaticamente la maggioranza dei seggi alla maggiore minoranza, il Parlamento monocamerale è destinato a ridursi a un organo decorativo di ratifica plaudente delle decisioni del governo, a questo legato da un rigido rapporto di fedeltà. Ne risulterà alterato l’intero equilibrio dei poteri e sostanzialmente capovolto il rapporto di fiducia: non più la fiducia della Camera che il governo deve ricevere e mantenere, ma al contrario la fiducia del governo, e precisamente del suo capo, che i parlamentari di maggioranza dovranno guadagnarsi e mantenere se non vorranno rischiare lo scioglimento del Parlamento e la loro non rielezione. Del resto la riforma della nostra democrazia parlamentare in un sistema cripto-presidenziale è rivelata dall’articolo 2 comma 8 dell’Italicum: “i partiti o i gruppi politici organizzati che si candidano a governare depositano il programma elettorale nel quale dichiarano il nome e il cognome della persona da loro indicata come capo della forza politica”.
In questo modo il voto per la forza politica “che si candida a governare” è anche il voto per il “capo della forza politica” che si candida a divenire il capo del governo, in contrasto con l’art. 92 della Costituzione, rimasto inalterato, che ne affida la nomina al Presidente della Repubblica sulla base delle indicazioni dei gruppi parlamentari. Sarà ben difficile non solo la nomina di una persona diversa, ma perfino la sfiducia, destinata inevitabilmente a provocare lo scioglimento della Camera.
È insomma l’azione congiunta della nuova Costituzione e della riforma elettorale che è destinata a provocare un indebolimento della rappresentanza parlamentare, e con essa della sovranità popolare, ancor maggiore di quello determinato dal vecchio Porcellum: la drastica riduzione del pluralismo nell’unica Camera rimasta; la lesione dell’uguaglianza nel voto, dato che il voto alla lista maggiore varrebbe quasi il doppio di quello alle altre liste, mentre il voto alle liste che non raggiungono la soglia minima non varrebbe nulla e resterebbe privo di rappresentanza; la rigida maggioranza, infine, automaticamente e stabilmente assegnata al governo nell’unica Camera che esprime la fiducia. Ne risulterebbe vistosamente contraddetta la sentenza n.1/2014 della Corte costituzionale, che censurando un meccanismo sostanzialmente analogo escogitato dal Porcellum ha affermato che esso determina un'”illimitata compressione della rappresentatività dell’assemblea parlamentare”. Questa stessa “illimitata compressione della rappresentatività”, ha scritto peraltro la Corte, rende questo Parlamento “incompatibile con i principi costituzionali”, e perciò inidoneo, oltre che alle funzioni “di indirizzo e controllo del governo”, anche, e ovviamente più ancora, alle “delicate funzioni connesse alla stessa garanzia della Costituzione (art.138)”. Insomma, ha detto la Corte, questo Parlamento, eletto con una legge incostituzionale, non era abilitato a una revisione costituzionale come quella approvata, tanto più se associata a una riforma elettorale che ha riprodotto, nella sostanza, esattamente quella da essa dichiarata costituzionalmente illegittima.