Ecco perché partecipo al Pad (Progetto assistenza ai disoccupati)

24 Giugno 2016 /

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di Valerio Romitelli
Dal mese di giugno 2016 a Bologna è nato questo progetto sperimentale che punta a strutturarsi più stabilmente sul territorio. Promotori ne sono il servizio NIdiL della CGIL, Auser, un gruppo di psicologi e psicoterapeuti volontari in collaborazione con l’Associazione “Includendo”, il Dipartimento di Storia, Cultura e Civiltà dell’Università di Bologna e il GREP (Gruppo di ricerca etnografica del pensiero).
Prima di illustrare qualche aspetto di tale progetto, dando anche voce ad alcuni promotori (vedi II), tengo a esporre una sorta di dichiarazione di interesse per questa iniziativa, alla quale parteciperò come etnografo.
I
Cos’è la disoccupazione? Una delle sue più note definizioni ricorre ad una metafora militare. Marx infatti la definiva “un esercito di riserva industriale”. Suo scopo? Tenere basso il costo della forza lavoro e così favorire il profitto del capitalismo, anzitutto di quello industriale. Altri tempi?
In parte no, in parte sì. In parte no perché è chiaro che è qualsiasi capitalista di norma preferisce sempre la mano d’opera meno costosa. In parte sì, perché siamo ben lontani dai tempi di Marx. Allora si era infatti nell’epoca della prima industrializzazione, mentre oggi siamo già oltre la terza o forse la quarta industrializzazione. Che significa questo? Parecchie cose.

Anzitutto, che se nell’800 la stragrande parte del mondo era priva di industrie, attualmente le industrie sono ovunque e in non poche aree del mondo sono addirittura fin troppe. Ma c’è di più. Se l’industrializzazione ai tempi di Marx avveniva su scala nazionale, orchestrata dagli Stati nazione, oggi tutta l’economia è globalizzata.
Ecco perché attualmente è da ridiscutere la metafora dell’esercito di riserva industriale per descrivere la disoccupazione. Parlare di esercito significa infatti parlare di un corpo organizzato e di un agente organizzatore. Se nell’800 questo agente organizzatore poteva essere chiaramente identificato in ogni singolo Stato nazionale, quello che Marx chiamava il “comitato d’affari della borghesia”, oggi le cose stanno diversamente. Stante l’attuale sottomissione di ogni Stato agli imperativi del mercato, è direttamente tra questi imperativi che vanno scovati cause e agenti organizzatori della disoccupazione.
Ma quasi nessuno oggi crede più all’apologia del mercato come una divinità che si regola e si sviluppa da sola. Da qualche anno è infatti finita l’epoca d’oro del neoliberalismo: a partire dal 2008, lo scoppio della crisi tutt’ora non riassorbita ha fatto perdere gran parte della credibilità di questa dottrina imperversante dagli anni ’80.
Da allora si è potuto sempre più chiaramente constatare che il mondo è finito prigioniero di un circolo vizioso per cui il rallentamento della produzione, la saturazione e il restringimento dei mercati si accompagnano ad alti tassi di disoccupazione in paesi come l’Italia, ma anche nella stragrande parte del mondo. Fatto ancor più grave è che questo circolo vizioso si sta avvitando a velocità crescente nonostante che le ricette per interromperlo non mancano, come gli economisti più famosi come Stiglitz, Krugman, Piketty e altri insistano da anni a spiegarlo. Loro tema ricorrente è ad esempio la perorazione di una più equa redistribuzione del reddito a livello locale e mondiale volta a restringere la invece sempre più larga forbice tra ricchi e poveri. Perché? Ma perché è ovvio che se si vuole rilanciare la produzione, e dunque ridurre la disoccupazione, occorre allargare il mercato, e per allargare il mercato occorre promuovere la domanda, dunque rendere meno poveri i poveri dotandoli di una maggiore capacità d’acquisto.
Perché allora questo orientamento strategico, che è stato perseguito con successo nel secondo dopoguerra all’insegna del Welfare State, oggi continua a restare per lo più una Cenerentola, globalmente trascurata a profitto di altre politiche economiche in Europa dette più austere ma in realtà solo vessatorie per la maggioranza della popolazione che ne soffre le conseguenze?
La risposta va cercata ovviamente nella esorbitante dimensione finanziaria che ha cominciato a formarsi proprio con l’imporsi con la globalizzazione dei mercati seguiti al crollo dell’Urss e alla conversione capitalistica della Cina. Passaggio cruciale di questa svolta epocale è consistito nella restaurazione della fusione tra banche di risparmio e banche d’affari: proprio quella fusione che era stata già combattuta negli anni ’30 per prevenire il ripetersi di crisi come quelle del ’29.
Perché preservare la massa del risparmio dalle scommesse avventurose dei giochi finanziari è così importante? Perché se no accade proprio quello che è esploso mondialmente negli anni ’90: lo scatenamento bulimico della stessa finanza. Sarebbe a dire, il saltare di ogni limite di fronte alla sua congenita propensione a fagocitare ovunque il risparmio per farne la posta di un sempre più vasto giro di scommesse a caccia dei più facili e istantanei guadagni.
Questo però non è stato che il primo passo verso una china ancora più disastrosa intrapresa dall’inizio del terzo millennio e da allora non più abbandonata: l’attuale capitalismo giustamente definito da Nino Galloni “ultrafinanziario” non si limita infatti ad andare a caccia di ogni risparmio, ma punta ad accumulare sempre più crediti indebitando ovunque, chiunque e comunque. Tutto fa brodo, da questo punto di vista: anche un disoccupato o un nullatenente.
Che senso ha indurli e ridurli in debito, se ben difficilmente riusciranno a ripagarlo? Sul lungo periodo senso non lo avrebbe certo, ma ad interessare alla finanza così come oggi è configurata non è affatto il lungo periodo, bensì l’incasso istantaneo. Da quest’ultimo punto di vista, anche il debito di chi non lo può ripagare diventa un credito per altri e ogni credito può essere immediatamente usato come posta dei giochi finanziari più spericolati.
Quando si scopre che una massa di crediti è inesigibile, quando crolla la fiducia sulla possibilità di spacciare titoli “spazzatura” fondati su debiti insolvibili, ecco che scoppiano crisi come quelle del 2008, ma resta che fin quando questa scoperta non è fatta, fin quando permane la fiducia di potere riuscire a fregare altri investitori, enormi guadagni istantanei sono assicurati. Enormi guadagni istantanei che sono assicurati anche quando ristretti gruppi di investitori più avvezzi a simili giochi “nasano” un crollo di fiducia a livello locale o globale e allora si affrettano a vendere titoli sull’orlo del discredito. Il tutto notoriamente regolato da algoritmi che amplificano all’infinito gli effetti dell’accrescersi o del calare della fiducia su questo o quel titolo.
Ecco perché l’attuale sistema finanziario ha bisogno di disoccupati e comunque di gente che non possa contare su una paga regolare: perché sono proprio loro i più necessitati a indebitarsi e così a creare crediti utili gli operatori borsistici. La disoccupazione oggi non è più definibile come esercito di riserva industriale, ma come esercito di riserva finanziaria.
Tutto quanto fin qui esposto è da anni oggetto di una sterminata letteratura. E anche non pochi film ne hanno trattato in modo più o meno efficace. Se qui mi sono avventurato in questo rapidissimo riassunto di fenomeni ben altrimenti complessi è solo per una ragione. Solo per cercare di rimarcare la singolarità della questione della disoccupazione oggi. Essa in effetti non è più il sacrificio o il prezzo da pagare per progressi auspicabili. Non è più, come è stata per lungo tempo dall’800 in poi, la dolorosa condizione che alcune popolazioni dovevano subire perché il mondo fosse industrializzato, dunque modernizzato. Né è più da intendersi come un esercito di riserva col quale la classe operaia dovrebbe allearsi strappandola all’egemonia capitalistica e indirizzandola verso la prospettiva del socialismo e/o del comunismo.
La disoccupazione oggi è semplicemente uno dei tanti effetti rovinosi creati da un capitalismo degenerato al punto di non puntare più allo sviluppo produttivo, al progresso, alla modernizzazione, ma semplicemente alla spartizione (in modi sempre più rapidi, sofisticati e ristretti a sempre più esigue minoranze di giocatori) della ricchezza globalmente esistente, per di più nella più completa incuranza del fatto che questa ricchezza nel frattempo si stia riducendo a ritmi crescenti.
Ecco perché l’essere disoccupati oggi, in modo cronico o saltuario, è condizione di assoluta normalità per intere popolazioni in aumento ovunque. Essere disoccupato non è infatti che il lato oscuro di quella dimensione ossessivamente esaltata dalla propaganda neoliberale per la quale tutti dovrebbero sapere ininterrottamente “reinventarsi”.
Cruciali diventano allora le discussioni su quali politiche fare nei confronti dei disoccupati, fermo restando che la loro riduzione quantitativa può essere solo un aspetto. E neanche il principale visto che la loro scomparsa, il “pieno impiego” non potrà mai essere una priorità degli Stati e governi quali sono e si dichiarano attualmente: al servizio del mercato, dunque anzitutto di quello finanziario.
Come far dunque pressione su tali Stati e governi, perché operino diversamente nei confronti dei disoccupati? Cosa rivendicare precisamente a tal proposito? Il reddito di base o reddito di sussistenza o reddito minimo universale è sicuramente una misura da discutere, ma a condizione di tenere ben presente che essa, di per se stessa, può anche servire solo a far sopravvivere un esercito di debitori reali o potenziali. Da discutere sono soprattutto le infinite altre possibilità per rendere dignitosa e attiva la condizione del disoccupato.
E chi sono, se non gli stessi disoccupati, i migliori esperti di simili questioni? Ecco perché partecipo al Pad. Perché penso che per cercare delle politiche alternative alle attuali in fatto disoccupazione i migliori consiglieri vadano trovati proprio tra coloro che soffrono direttamente questa condizione. Ma perché ciò avvenga credo anche occorra impegnarsi nel costruire assieme a loro un percorso atto a contrastare tutti gli stereotipi e i pregiudizi che ne fanno figure inutili, marginali, con tutte le conseguenze demotivanti, de-soggettivanti, del caso.
II
Venendo più in concreto al PAD (Progetto Assistenza ai Disoccupati) va segnalato anzitutto il suo carattere volontario e composito: inizialmente promosso da un gruppo di psicologi e psicoterapeuti in collaborazione con l’Associazione Includendo, esso è stato accolto dal servizio della città di Bologna NIdiL della CGIL e dell’associazione nazionale del volontariato Auser, per trovare infine l’adesione di antropologi del Dipartimento di Storia, Cultura e Civiltà dell’Università di Bologna e il GREP (Gruppo di ricerca etnografica del pensiero).
Il primo passo di questo progetto sperimentale consiste nella proposta rivolta ad alcuni disoccupati (italiani e stranieri di entrambi i sessi) di sottoporsi, prima, ad una serie di incontri condotti dagli psicoterapeuti e psicologi del lavoro (seguiti da un ‘follow up’ a sei mesi di distanza per valutare le conseguenze del primo incontro), poi, una serie di interviste in profondità condotte dagli antropologi.
Dato l’immediato riscontro ottenuto da tale proposta il progetto ha già preso avvio. Gli obiettivi concreti perseguiti sono fondamentalmente di tre tipi:

  • 1) l’offerta di un supporto alla persona del singolo disoccupato per gestire la dimensione del disagio e sviluppare auto-sostegno nell’affrontare i problemi di natura economica e di natura individuale; orientamento e consulenza nella ricerca di lavoro, nella formazione, nell’accesso al welfare, al microcredito e a soluzioni abitative;
  • 2) raccogliere e analizzare parole e pensiero dei disoccupati sulla propria condizione, sulle politiche che la riguardano e su come potrebbero essere migliorate o reimpostate;
  • 3) fare dei materiali così ottenuti uno strumento di dibattito non solo con i diretti interessati, ma anche con sindacati, istituzioni e associazioni operanti sul territorio.

Al primo obiettivo si dedicano anzitutto gli psicologi e psicoterapeuti, al secondo anzitutto gli antropologi, al terzo anzitutto il servizio NIdiL della CGIL e l’associazione nazionale del volontariato Auser, fermo restando l’intento della massima collaborazione tra questi attori durante ogni singola operazione di tutto il progetto.
Quanto alla pertinenza di un tale progetto rispetto alla realtà nazionale, regionale e cittadina, il gruppo degli psicologi e degli psicoterapeuti si è documentato sui dati Istat ed Eurostat.
“Se si considerano i fallimenti di imprese dal 2009 al 2014, fatta eccezione per il 2012 – spiega una di loro – il numero dei fallimenti di imprese è continuato progressivamente a crescere su scala nazionale. Il 2014 si è chiuso con la cifra record di 15.605 fallimenti, per circa 82.500 mila imprese fallite dal 2009. In Emilia Romagna sono state ben 605 le aziende chiuse nei primi mesi del 2014 (il 7,5% sul totale in Italia): 5.189 se calcolate rispetto al 2009! La provincia più colpita è quella di Bologna dove il saldo è di meno 389 imprese.
“Quanto al tasso disoccupazione su scala nazionale, nel novembre 2014 esso ha raggiunto il 13,1% per poi ridimensionarsi a fine 2015 al 11,9%, ma sempre contro il 7,7% del 2005. Per di più, la mancanza di denaro o la situazione debitoria insanabile rappresenta la motivazione principale all’origine dei 108 suicidi (72,5% rispetto al totale) nel 2013, a fronte dei 44 del 2012. Essere disoccupato, da meno di un anno, ha un effetto statisticamente significativo per gli uomini, riducendo la loro salute mentale del 19%, mentre la disoccupazione a lungo termine ha un effetto negativo del 11%, soprattutto sulle donne.
“Nel 2014 il tasso di disoccupazione femminile era 14,7 su scala nazionale, il che per l’Emilia-Romagna comportava che le donne alla ricerca di un lavoro ammontassero a 89.000, con le giovani più colpite. Al giugno 2015, malgrado le tendenze positive rispetto all’anno precedente, ma solo nel terziario e nel lavoro poco qualificato, per le donne tra i 15 e i 64 anni è stato rilevato un aumento del tasso di disoccupazione dello 0,3%. Quanto poi alla disoccupazione giovanile, essa è salita fino al 42,7% (nel 2005 era al 24,1%).
“Infine, con l’anno in corso, il 2016, certo la stima degli occupati a livello nazionale può dirsi in crescita, ma solo nella misura assai modesta dello 0,4% (per un totale di 90 mila persone occupate in più rispetto all’anno precedente), mentre tra gli under 24 se ne registra addirittura una riduzione: 7000 occupati in meno”.
D’altra parte, secondo le parole di uno degli psicoterapeuti partecipanti al progetto PAD vi si può vedere anche una ripresa di quella che è stata una virtuosa tradizione bolognese.
“C’è stato un tempo nella nostra città – ha dichiarato lo psicoterapeuta – in cui l’attenzione verso la condizione delle persone in difficoltà ha fortemente unito amministratori, forze politiche della sinistra, associazionismo, studenti. È stato il periodo che va dalla fine degli anni ’60 fin quasi agli anni ’80, durante il quale nel Comune di Bologna ed in Provincia, gli assessorati al Welfare ed alla Sanità erano affidati a persone di alta caratura tecnica ed umana, come Nino Loperfido ed Alessandro Ancona. In quegli anni i bambini vennero tolti dagli istituti per dare loro un’esperienza di tipo familiare e per inserirli nelle scuole pubbliche. Nello stesso periodo, anticipando la riforma Basaglia, si abbattevano le barriere segreganti nelle istituzioni manicomiali e chi era ricoverato poteva affacciarsi all’esterno e ritrovare una propria dignità come persona. Anticipando e prefigurando la riforma sanitaria nazionale, a Bologna venivano sperimentati i Distretti Sociosanitari, portando la tutela della salute più vicino ai cittadini.
“Poi si sono succeduti anni diversi: le risorse agli enti locali sono drasticamente diminuite, nella Sanità ha preso sempre più spazio una visione aziendalistica, c’è stato un calo dell’attenzione da parte della politica. A fronte di questa realtà, è stato l’associazionismo a impegnarsi maggiormente verso le fasce di popolazione più fragili. Realtà che nel tempo sono cresciute come Auser, risorsa centrale nelle attività rivolte agli anziani ed disabili. Ma anche sindacati come la CGIL hanno saputo trasformarsi e mettere in campo risposte specifiche per persone che hanno perso il lavoro.
“Oltre a ciò, di fronte alle situazioni di crisi non è mancata la sensibilità di alcune figure professionali: dai medici che visitano gratis gli immigrati agli “avvocati di strada”, agli psicologi che sono accorsi per il terremoto del 2012. Oggi è ancora un piccolo gruppo di psicologi e ricercatori universitari che, di fronte alla crisi che colpisce tante persone che si trovano senza lavoro e ne soffrono tutte le conseguenze, ha pensato che occorreva fare questa esperienza (il PAD) che non vuole rimanere patrimonio di un piccolo gruppo di specialisti, ma offrire stimoli alla politica dell’amministrazione ed aprire nuovi percorsi di tutela dei diritti della persona”.
Stante tutte queste promesse non resta che sperare che il PAD riesca a perseguire i suoi intenti di offrire ai disoccupati della nostra città un’assistenza utile a rendere la loro condizione meno penosa e politicamente più attiva.

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