di Sergio Caserta
Quando a Waterloo gli inglesi accerchianti intimarono al francese Cabronne la resa, egli pronunciò la famosa frase: “La guardia muore ma non si arrende”. Gli inglesi ripeterono l’ intimazione, dopo aver colpito ripetutamente a fucilate le truppe francesi e allora il generale gridò “merde” come estrema reazione di orgoglio e rifiuto di ammettere la sconfitta. M’immaginavo così Renzi, dopo le batoste subite nella domenica elettorale quando in tutti i campi di battaglia, i comuni, gli elettori Pd hanno preso la via della fuga verso altri lidi, lasciando sul terreno ingenti perdite.
Renzi ha avuto la capacità ineffabile di profferire corrucciato “non sono contento”, una frase inconcepibile solo ventiquattr’ore prima in cui il sole intramontabile brillava ancora luminoso sul suo Impero. La sconfitta in termini di voti e di rischio ballottaggi, è tale che nei prossimi dieci giorni il presidente del consiglio e segretario del partito si gioca veramente tutto, molto in anticipo rispetto alla scadenza da lui fissata a ottobre con il referendum costituzionale, anche se continua fissamente a ripetere che nemmeno in quel caso lascerà lo scranno.
Se il bilancio finale, oltre alla perdita già notificata a Napoli con l’esclusione dal ballottaggio e quella quasi scontata a Roma, a meno da non immaginare ulteriori e inquietanti scenari di stani connubi con la destra (non ci sarebbe troppo da sorprendersi ), le competizioni di Milano, Torino e Bologna rappresentano veramente la linea di confine tra la sopravvivenza, comunque in condizioni molto diverse del suo mandato, o la fine anticipata per Knock out tecnico.
Renzi paga il fio di infiniti errori di strategia politica che ormai appaiono chiari anche ai suoi più strenui difensori. La scelta disinvolta nelle alleanze per assestare colpi al Parlamento attraverso voti forzati su provvedimenti importanti, il varo manu militari di una “riforma” costituzionale ed una legge elettorale da repubblica delle banane (con la copertura politica dell’ex presidente della repubblica ahinoi), la liquidazione di tutti coloro che hanno il torto di avere un’opinione diversa, clamoroso l’autogol su Marino, estromesso da sindaco con una congiura degna del manuale dei Borgia, la scelta di candidati risibili come a Napoli, l’operazione milanese all’insegna del “fatevi da parte ghe pensi mi” chiudendo la stagione arancione con le tinte non proprio limpide dell’affarismo di regime di Sala, sono la cifra di uno “stratega” che immagina la politica come un eterno show televisivo in cui lui si fa le domande e si da le risposte, mentre il pubblico imbavagliato, applaude all’accendersi della lampadina.
Renzi non è altresì la malattia del Pd, è solo il sintomo di un’infezione che ha più lunga e profonda origine. La classe dirigente selezionata da Renzi, è all’altezza di una caccia al tesoro dei boy scout, abituata a far politica nei circoli arci di Pontassieve e dintorni, oppure nei salotti di papa Boschi tra un brunello di Montalcino e un compasso. Quella del Pd che è rimasta dopo le svolte e contro svolte non è meglio: arnesi che hanno combattuto tutte le guerre dalla Bolognina in avanti con la passione e la cultura dei burocrati di palazzo, funzionari grigi e grigissimi che hanno esaurito ( in realtà in tanti casi non hanno mai avuto), lo spessore necessario a una grande partito, prova ne sia che il declino del Paese è proseguito ininterrotto anche durante i non pochi anni di governo di centrosinistra ( si fa per dire).
Questo Pd è un equivoco fallimentare durato troppo a lungo. È incredibile che ancora quei pochi che hanno un po di sale in zucca non riescano a prenderne atto e a pensare che forse è venuto il momento, anzi l’occasione, di staccare la spina e ricominciare una nuova storia per la sinistra italiana che non può essere lasciata in quelle mani. La speranza è l’ultima a morire ma ripercorrendo i volti di coloro che dovrebbero assumere questa responsabilità prevale un triste disincanto.