di Simona Ravizza
La sua vita da medico abortista la definisce faticosa, dolorosa, perfino pericolosa. Unico ginecologo non obiettore dell’ospedale, il Niguarda di Milano, tra i più importanti d’Italia e da sempre culla di Comunione e Liberazione, Maurizio Bini, 58 anni, non ha potuto essere presente alla morte del padre: «Era programmata una seduta di interruzioni di gravidanza proprio quel giorno. Quale altra scelta avevo?».
La famiglia è finita in secondo piano anche tutte le volte che ha dovuto saltare le ferie, come un indimenticabile 2 giugno: «Sono ritornato dalle vacanze apposta, perché una ragazza albanese giovanissima non era riuscita a trovare in tutta la Lombardia qualcuno che la aiutasse ad abortire prima che scadessero i termini di legge, nonostante il feto avesse una grave malformazione».
Le difficoltà di una vita trascorsa, come dice lui, sulla frontiera della morale, sono infinite: «Sacrifici in termini di progressione di carriera, considerazione sociale e quantità di energia sottratta ad altre ben più gratificanti attività professionali».
Dopo 33 anni d’ospedale Bini non ci gira intorno: «Resistere alle seduzioni di una vita più semplice e comoda non è stato facile, anche perché nel tempo la situazione è andata peggiorando. Le nuove generazioni di ginecologi sono meno consapevoli dei drammi che vivevano le donne prima della legalizzazione dell’aborto (avvenuto nel 1978 con la legge 194, ndr). Così il numero di medici non obiettori si è via via ridotto, a scapito di chi restava – spiega Bini -. Nel mio ospedale abbiamo raggiunto l’apice con un solo medico su 17 che praticava le interruzioni di gravidanza, con il rischio di bloccare il pubblico servizio. Solo negli ultimi mesi sono stati assunti 2 giovani ginecologi che possono partecipare alle attività della legge 194. E la situazione è migliorata».
Ma l’allerta deve restare alta: «Bisogna vigilare – dice il ginecologo -. L’attività delle interruzioni di gravidanza tende naturalmente a contrarsi in base alle esigenze organizzative. Nel tempo, io avevo tolto ogni limitazione di accesso al servizio. Ora invece a Niguarda vengono accettate solo 10 donne, 2 volte la settimana. E in altri ospedali va anche peggio».
È una strada a ostacoli anche l’utilizzo della Ru486, la pillola che consente l’aborto farmacologico: «Nonostante l’aumento dei medici abortisti si sta assistendo a una contrazione dell’attività – spiega -. L’attuale assetto legislativo (con 3 giorni di ricovero, ndr) comporta una burocrazia tale da scoraggiare chiunque. Così dalle 40 interruzioni farmacologiche mensili siamo scesi alle 3-4 attuali. Tutto ciò comporta un aumento degli interventi chirurgici e delle liste di attesa».
Per Maurizio Bini essere non obiettore è stata una fatica anche perché guida da sempre il Centro di riproduzione assistita dell’ospedale: «Ho una percezione chiara del valore infinito della vita. Ma fra i pochi motivi di orgoglio di una lunga carriera medica c’è quello di essere sopravvissuto occupandomi di aborto, embrioni e transessuali in un Paese e una Regione, la Lombardia, non proprio pro-choice». Rimangono i rimpianti per una legge applicata solo parzialmente sul fronte della prevenzione. Chissà se adesso, con un po’ più di aiuto in più, avrà il tempo per dedicarsi alla nuova sfida.
Questo articolo è stato pubblicato dalla Ventisettesima ora del Corriere della sera il 23 maggio 2016