L'inferno del potere: ecco il racconto che se ne fa in Calderón di Pasolini

28 Maggio 2016 /

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Calderón di Pier Paolo Pasolini
Calderón di Pier Paolo Pasolini

di Dario Zanuso e Aldo Zoppo
Sono al limite dell’irrappresentabile i drammi di Pasolini. Portarli in teatro richiede coraggio; in questo caso ci pare quasi una sfida al pubblico degli abbonati alla stagione di prosa: 140 minuti senza intervallo, molti dei quali di monologhi pervasi di ideologia sulla natura del potere della borghesia e sui suoi trasformismi.
Il dramma in versi Calderón è l’unico dei testi teatrali di Pier Paolo Pasolini ad essere stato pubblicato prima della sua prematura scomparsa (dall’editore Garzanti, nel 1973, sulla base della revisione di una prima versione del 1967). Pasolini abbandonò infatti l’idea di un volume dedicato alla sua intera produzione per il teatro, ritenendo che gli altri testi avessero ancora la necessità di una revisione formale per essere leggibili. Del Calderón disse invece di ritenerlo “una delle [sue] più sicure riuscite formali”.
La sua prima e più celebre rappresentazione ebbe luogo nel 1978, al Teatro Metastasio di Prato, per la regia di Cesare Ronconi (che fece recitare gli attori nella platea, svuotata dalle poltrone, e sistemare il pubblico sui palchi). Tra gli spettatori, l’allora giovanissimo Federico Tiezzi, che ora, a distanza di quasi quarant’anni, firma questa nuova importante e riuscita messa in scena.

Per Tiezzi si tratta di un ritorno a Pasolini: nel passato, sempre con l’attore Sandro Lombardi, aveva messo in scena Porcile e altri due lavori che prendevano spunto dalla sua produzione poetica. Dietro questo ritorno c’è qualcosa di più profondo della semplice ricorrenza di un anniversario (quello della morte dell’autore): “scavare in questo testo significa scavare nella mia formazione, non solo artistica, ma anche politica e morale; affondare le mani in quegli anni, per capirne il significato e capire cosa ancora oggi resta di quel mondo, che ci è, al pari di noi stessi, postumo: e non parlo solo della sinistra, ma di tutta la società italiana. (…) Calderón diviene un grande affresco delle speranze di quegli anni. Mi sono chiesto, è vero, di cosa il pubblico più giovane potrà capire di quella passione che ci aveva coinvolto: ma ho deciso che attraverso Pasolini dovevo parlarne, per recuperare una memoria storica e una passione civile scomparsa nella desolazione del presente” (intervista a Il venerdì di Repubblica, 25 marzo 2016).
Aggiungiamo noi che in Calderón si manifesta però anche il radicale – e ben poco consolatorio – pessimismo di Pasolini, derivante dalla sua analisi sulla “mutazione antropologica” e sull’avvento della società dei consumi, in merito all’effettiva natura rivoluzionaria del Sessantotto. Egli lo interpreta piuttosto come un tentativo di camuffamento della borghesia, con l’obiettivo di perpetuare il proprio potere sotto nuove forme, più adatte al mutato spirito del tempo.
Al centro del dramma c’è la dimensione del sogno. Per questo l’autore decide di ispirarsi all’opera del grande drammaturgo e religioso spagnolo del Siglo de Oro, Pedro Calderón de la Barca (1600-1682), al suo capolavoro La vida es sueño (La vita è un sogno). I suoi personaggi avvertono con sgomento la futilità di ogni esperienza umana: l’intera esistenza è sogno, caratterizzata quindi da illusorietà, fugacità del tempo, vanità delle cose terrene (cfr. la voce Wikipedia dedicata a La vida es sueño).
I personaggi di Pasolini hanno gli stessi nomi, Rosaura, Basilio, Sigismondo, e il dramma si presenta come un susseguirsi di sogni. Diversa è invece la storia, ambientata sì in Spagna, ma nel 1967. Il potere è quello di stampo fascista di Franco, ma anche qui si avvertono gli echi della contestazione giovanile ed operaia.
Calderón affronta il tema della dialettica tra l’individuo e il potere (è il potere oppressivo e totalitario che Pasolini vede all’opera anche nelle democrazie e di cui ha dato grandi raffigurazioni in opere come Salò o Petrolio; c’è che ha notato che Calderón nel dialetto friulano, quello della sua prima produzione poetica, significa inferno). Attraverso il sogno si esprime il tentativo di uscire dalle costrizioni asfissianti dell’ordine costituito e del potere borghese, con le sue ipocrisie e i suoi opportunismi. È un tentativo illusorio: i sogni rappresentati nel dramma raccontano della nascita di un amore (ci parlano anche del desiderio sessuale), un amore che tuttavia si scoprirà essere impossibile perché incestuoso. L’amore incestuoso diventa un simbolo di diversità e trasgressione, di un tentativo di fuga. Una fuga impossibile, che porta alla follia.
Questa impossibilità di evadere dal contesto sociale dato è ben rappresentata dalla scenografia. La scena è spoglia ed essenziale, l’unico arredo è il letto su cui si sveglia Rosaura, la sognatrice. Questa scena è racchiusa sui tre lati da alte mura con pietre a vista, ad evocare l’immagine di una prigione.
A sognare è Rosaura. Sono tre sogni successivi: ogni volta Rosaura (interpretata da tre diverse attrici) si sveglia in un mondo diverso, che non riconosce: aristocratico, sottoproletario e borghese.
La prima Rosaura appartiene ad una ricca e potente famiglia aristocratica, sostenitrice del franchismo. Gli attori indossano gli sfarzosi abiti neri del Seicento spagnolo, e vaporose parrucche bianche. In scena è ricostruito il celebre quadro Las Meninas di Velàzquez. Rosaura si innamora di un amico della madre, Sigismondo, tornato a Madrid dopo un lungo esilio causato dalla sua opposizione al regime. Scoprirà che in realtà è suo padre: aveva infatti violentato la madre per punirla di aver abbandonato i suoi ideali rivoluzionari giovanili.
Nel secondo sogno Rosaura fa la prostituta in un sordido quartiere del sottoproletariato di Barcellona. Entra nella sua baracca Pablito (il rampollo di una ricca famiglia, dall’identità sessuale incerta, discepolo di un predicatore rivoluzionario omosessuale), a cui gli amici, nel giorno del suo sedicesimo compleanno, vogliono far conoscere il sesso. Rosaura si invaghisce di lui, ma un prete gli rivelerà che è suo figlio, il frutto di uno stupro.
Nel terzo sogno Rosaura (che scopriremo essere l’autrice dei sogni) appartiene ad una famiglia piccolo-borghese, ci appare rassegnata ad un destino di mediocrità e si innamora di Enrique, uno studente rivoluzionario che, in fuga dalla polizia, cerca rifugio nel suo appartamento. All’esterno della sua abitazione si avvertono i rumori degli studenti e degli operai in rivolta.
Sullo sfondo di questi sogni incombe la figura di Basilio (un lucido e perfido Sandro Lombardi), a rappresentare la dimensione del potere, da cui è impossibile sfuggire. È il padre-re (della scena che rievoca Las Meninas), oppure il marito piccolo-borghese, ipocrita ed opportunista. Attraverso i suoi leccapiedi (singolari figure di cani-sicari, ovvero medici-psichiatri) manovra gli smarrimenti di Rosaura per dimostrarle che non ha vie d’uscita dall’ordine borghese che egli rappresenta.
Nell’ultimo sogno Rosaura si trova in un lager, da cui verranno a liberarla degli operai con le bandiere rosse.
Anche in questo caso niente più che una illusione. Queste le beffarde parole di Basilio con cui si chiude il dramma:

Un bellissimo sogno, Rosaura, davvero
Un bellissimo sogno, ma io penso
(ed è mio dovere dirtelo) che proprio
in questo momento comincia la vera tragedia.
Perché di tutti i sogni che hai fatto o che farai
si può dire che potrebbero essere anche realtà.
Ma, quanto a questo degli operai, non c’è dubbio:
esso è un sogno, niente altro che un sogno.

Calderón, di Pier Paolo Pasolini, regia di Federico Tiezzi
Visto all’Arena del Sole di Bologna il 15 maggio 2016

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