di Gianfranco Sabattini
La Grande Recessione sta svelando agli italiani una realtà della quale mai, sino ad alcuni anni addietro, si sarebbero sognati di dover affrontare. Ormai, nella classifiche internazionali il Paese sta slittando, lentamente ma inesorabilmente, verso le ultime posizioni, anche laddove le classifiche lo vedevano primeggiare. Questa dura realtà emerge dalla lettura di “Ultimi”, di Antonio Galdo, un volume snello, ma denso di statistiche che “condannano l’Italia” ad occupare nel ranking internazionale posizioni sempre più marginali.
In particolare, due sono i settori del sistema complessivo del Paese che, per via del loro progressivo deterioramento, sembrano destinati a costituire gravi ostacoli ad una futura fuoriuscita dal tunnel della recessione: la scuola e la dimensione dell’apparato industriale.
Il sistema scolastico e della formazione presenta uno stato di arretratezza a tutti i livelli d’ingresso, dagli asili all’università. Secondo un’indagine Unicef, che di recente ha misurato la qualità della vita dei minori nelle ventinove economie più ricche del mondo, l’Italia si è piazzata in fondo alla classifica, al ventiduesimo posto, superata da Paesi come la Slovenia, la Repubblica Ceca, il Portogallo e l’Ungheria. Per capire perché ciò è avvenuto, occorre considerare il peggioramento dei parametri che l’Unicef nella sua ricerca ha preso in considerazione, quali il benessere materiale, la salute, la sicurezza, i comportamenti e i rischi, le condizioni abitative e ambientali e l’istruzione. I parametri relativi al benessere materiale e all’istruzione presentano gli aspetti più preoccupanti.
Su dieci milioni di minori censiti in Italia, “quelli classificati in una condizione di povertà assoluta sono passati da 723.000 nel 2011 a quasi un 1 milione e mezzo nel 2013. Raddoppiati in quattro anni. […] La povertà, dunque – afferma Galdo – è entrata nelle nostre case dalla porta principale”. Tutto ciò è accaduto. nonostante non esista nel Paese un partito politico o un governo che non abbiano messo al centro dei loro programmi il sostegno delle famiglie più povere; le statistiche li smentiscono. Infatti, se si considerano i trasferimenti pubblici effettuati a sostegno delle famiglie più bisognose, risulta che dai 2 miliardi e 523 milioni di euro del 2009 sono passati a meno di un terzo del 2013; mentre altri Paesi dell’Unione Europea, come il Regno Unito e la Germania, nello stesso periodo di tempo, hanno ridotto la povertà dei minori.
Riguardo alla qualità dell’istruzione dell’obbligo, le indagini condannano l’Italia ad essere il Paese incapace di fornire un’istruzione di “buona qualità”, in linea con quella di molti altri Paesi occidentali; ciò accade per ragioni diverse da quelle che si cerca solitamente di accreditare, ovvero per l’insufficienza delle risorse destinate alla scuola. Al contrario, in Italia, “il numero di studenti per insegnante è il più basso tra le nazioni dell’Ocse: circa 11 studenti per insegnante, contro i 19 della Germania e della Francia e i 15 degli Stati Uniti. L’appiattimento verso il basso della scuola dell’obbligo italiana è stato determinato da tre tendenze di fondo: intanto, dall’impoverimento materiale e sociale degli insegnanti; in secondo luogo, dal blocco del turnover, al punto, osserva Galdo, che in Italia si hanno i professori più anziani d’Europa; infine, dall’essersi affermata una “scuola di classe”, “il contrario di quella che si pretende di difendere a colpi di proteste di piazza e di scioperi con il solito slogan della ‘scuola per tutti'”. Si è arrivati così al punto che chi è dotato di mezzi manda i propri figli ad istruirsi presso istituti di eccellenza, avendo anche la possibilità, non solo di scegliere la sezione d’iscrizione, ma anche gli insegnanti, concorrendo in tal modo a consolidare un sistema scolastico che più classista non potrebbe essere.
Infine, l'”Università italiana è fuori dal mondo”: l’Italia non sfigura sul piano della produttività scientifica, classificata a livello mondiale all’ottavo posto, dopo Stati Uniti, Cina, Regno Unito, Germania, Giappone, Francia e Canada; ma, allo stesso tempo, il grado di internazionalizzazione degli atenei italiani è molto basso, in quanto essi intercettano solo il 2% degli studenti che decidono di iscriversi nelle facoltà dei Paesi dell’Ocse. Sintomo incontestabile, questo, del fatto che l’Università italiana gode di scarso prestigio a livello internazionale.
Come nella scuola dell’obbligo, anche nell’università, per effetto del blocco del turnover, si è “creata una palude generazionale”, con la perdita di 11.000 professori; ciononostante, l’università italiana è la più anziana del mondo: dei 13.239 professori ordinari ancora in ruolo, nessuno ha meno di 35 anni e solo il 15% ha meno di quarant’anni. Anche sull’università si è abbattuta la scure del taglio dei finanziamenti, effettuato in modo orizzontale, senza considerare le differenze esistenti tra i vari atenei; a questo tipo di penalizzazione si sono sottratti solo quegli atenei, come i Politecnici di Milano e Torino che, per merito proprio e per i finanziamenti che riescono a procurarsi attraverso i loro rapporti con le attività produttive presenti nel territorio, garantiscono alti livelli di ricerca e di rendimento degli studenti.
Riguardo ai problemi dell’apparato industriale del Paese, due fenomeni in particolare lo caratterizzano in negativo: la crescente perdita di competitività e la scarsa propensione ad investire. La “contabilità” dei danni della Grande Recessione documenta di continuo il peggioramento della situazione; l’Italia ha perso, dall’inizio della crisi, “circa 10 punti percentuali di ricchezza nazionale, che diventano 14 punti nelle regioni meridionali; si è polverizzato un quarto della capacità produttiva; sono stati cancellati in un colpo solo 1.200.000 posti di lavoro, 109 miliardi di euro di investimenti, 50.000 imprese manifatturiere. Oltre 2,2, milioni di italiani, specie al Sud, sono precipitati sotto la soglia di povertà. Uno tsunami, dopo il quale serviranno almeno vent’anni, secondo il Fondo Monetario Internazionale, per tornare ai livelli precedenti alla Grande Crisi”. Allo stesso tempo è precipitata la competitività della base produttiva italiana.
Il Rapporto stilato dal World Economic Forum colloca l’Italia al quarantanovesimo posto rispetti ai 144 Paesi considerati. Per migliorarne la competitività servirebbero investimenti, soprattutto privati, ma secondo uno studio della Banca Mondiale (Doing Business) è più facile fare impressa nel Bahrein o in Macedonia che in Italia. Fra gli elementi che hanno contribuito all’indebolimento della base produttiva, vi è la “pesantezza dell’apparato burocratico e dei meccanismi di tassazione”. Questa pesantezza non ha reso precaria solo la vita dei cittadini, ma ha anche penalizzato la propensione di chiunque sia propenso ad investire in Italia; ne è prova il fatto che le tasse non sono considerate dagli imprenditori il fattore di maggiore ostacolo allo svolgimento della loro attività, in quanto in cima alle loro preoccupazioni vi è solo l’inefficiente burocrazia, per via delle sue lente e complicate procedure, ma soprattutto perché “favoriscono l’opacità delle singole operazioni e perfino l’illegalità”.
Nonostante la soffocante burocrazia e l’alta pressione fiscale, l’Italia ha conservato la sua posizione di eccellenza a livello mondiale nei comparti industriali manifatturieri (quinta economia manifatturiera nel mondo e seconda in Europa, dopo la Germania); il tallone di Achille di questa importante parte della base produttiva nazionale è costituito dal fatto che il 95% delle imprese manifatturiere hanno non più di dieci addetti; in media, esse sono più piccole del 40% rispetto alle imprese manifatturiere europee e si presentano con 3,9 dipendenti rispetto ai 12,1 della Germania e ai 10,5 del Regno Unito. Una volta, “piccolo era bello”, ma, nel mondo della competizione globale, “ciò che sino a ieri era considerato fattore di flessibilità e di creatività, quasi un tratto distintivo del nostro Dna industriale, nel tempo si è trasformato in un elemento di cronica fragilità. […] Una sorta di virus che si ripercuote sulla produttività del sistema industriale, sulla struttura dei costi, sulle difficoltà di accedere al credito per raccogliere le risorse necessarie agli investimenti, sulla possibilità di fare ricerca e innovazione tecnologica”.
Inoltre, l’86% delle imprese italiane fa capo ad una famiglia proprietaria, che rende possibile una governance del tutto anomala, concentrando nelle stesse mani proprietà e gestione; fatto, questo, che, nei momenti di crisi come quelli attuali, rende assai stentata la sopravvivenza delle imprese. La permanenza sul mercato delle attività produttive nei momenti di crisi richiede, infatti, forti capacità di innovazione e di rinnovamento, che la prevalente natura familiare del capitalismo italiano non consente di esprimere, a causa della scarsa propensione al rischio dell’imprenditorialità italiana.
Questo stato di cose ha frenato nel tempo la modernizzazione del sistema industriale , creando una frattura tra le esigenze dell’economia reale e il risparmio degli italiani; a fronte di imprese sottocapitalizzate, si sono formate “dinastie familiari” molto ricche di risorse finanziarie, che mancano però di indirizzarsi prevalentemente verso il circuito produttivo.
Per fronteggiare le conseguenze negative del “nanismo industriale”, l’Italia ha scelto tradizionalmente una strada che risulta solo in parte efficace: i distretti industriali e le reti d’impresa. I primi sono costituiti da imprese specializzate di un dato comparto produttivo che, localizzate in un dato territorio, hanno diviso tra loro il ciclo di produzione; in tal modo sono riuscite a “fare massa critica” che ha loro consentito di affrontare, da posizioni di forza, i mercati internazionali. Le reti d’impresa, invece, sono costituite da una larga massa di attività produttive che, sulla base di un contratto, svolgono insieme alcune funzioni d’impresa, come ad esempio l’effettuazione di acquisti congiunti di materie prime, l’esercizio in comune di impianti, o il finanziamento della ricerca, delle iniziative per il marketing e la promozione commerciale. Sia i vantaggi assicurati dai distretti, che quelli assicurati dalle sinergie di rete assicurano certamente una compressione dei costi, ma è pur sempre troppo poco per superare l’handicap del nanismo economico.
Quali le prospettive future per il sistema economico e sociale dell’Italia? Giustamente, Galdo, in chiusura del suo saggio, afferma che “enfatizzare le situazioni negative porta a chiudersi, a provare spavento per il futuro”; a questo primo sentimento segue l’altro, che ne rappresenta la conseguenza più immediata e che sta affliggendo gli italiani in questi ultimi anni: lo scetticismo. Superare quest’ultimo sentimento, però, senza un progetto politico in grado di suscitare l’entusiasmo che in questo preciso momento sarebbe necessario per dare risposte efficaci a tutte le criticità che assillano l’Italia, è molto difficile; ma, in assenza di adeguate iniziative da parte della società politica, non restano che le iniziative dei privati; questi, però, per mobilitarsi devono essere motivati dal convincimento che il loro impegno li vedrà coinvolti nella fruizione dei vantaggi connessi alla potenziale ripresa del Paese. Ma la persistenza del privilegio e delle disuguaglianze distributive che dovrebbe essere preventivamente rimossa, come “conditio sine qua non” per un generalizzato impegno dei cittadini è un altro handicap, forse il più importante fra i tanti prima elencati, che stanno determinando il lento riflusso dell’Italia verso la periferia del mondo.
Questo articolo è stato pubblicato dal Manifesto sardo il 1 maggio 2016