di Alfonso Gianni
Malgrado il cono d’ombra della vigilia, ieri mattina sono tornati in scena i metalmeccanici. Hanno manifestato unitariamente con cortei e presidi un po’ ovunque in tutta Italia. Spesso con una presenza significativa di lavoratori precari.
Dopo otto anni di separazione Fim, Fiom, Uilm, hanno proclamato assieme uno sciopero di quattro ore – andato bene, ma c’è la solita guerra dei numeri – per il rinnovo di un contratto che riguarda un milione e seicentomila lavoratori. Per smuovere una vertenza di fronte alla quale la Federmeccanica si è presentata fin dall’inizio con una propria contropiattaforma che mira ad esaltare il contratto aziendale e a deprimere, quando non cancellare, quello nazionale. E che conta sullo spalleggiamento da parte di un governo, che cita i lavoratori solo quando fa comodo, come nelle dichiarazioni di Renzi post-referendum di domenica scorsa, salvo destrutturare il diritto del lavoro e i diritti nel lavoro.
La prova unitaria di oggi avrà il suo peso nell’atteggiamento padronale? È possibile, non solo auspicabile. Soprattutto perché i risultati ottenuti dalla Fiom nei mesi scorsi, nelle elezioni interne ai luoghi di lavoro, hanno dimostrato sia al padronato che a una parte della dirigenza sindacale nostalgica delle politiche concertative, che la strategia della divisione non paga e che contratti firmati da chi, alla prova dei fatti, è meno rappresentativo di quanto non si sperasse, sono più favorevoli sulla carta ma ingestibili nella pratica.
Il contratto nazionale torna a svolgere, all’atto stesso della rivendicazione del suo rinnovo, una funzione unificante all’interno del mondo del lavoro. Un buon viatico anche per la campagna referendaria contro il jobs act. E una funzione di stimolo ad una economia che non può risollevarsi a colpi di liquidità iniettata – e lì finita – nel sistema bancario, se non riparte una domanda sostenuta da un minimo di capacità di spesa.
Il pensiero mainstream fa acqua da tutte le parti. Al punto che a livello europeo si è affacciata la teoria dell’helicopter money, ovvero della distribuzione di denaro direttamente ai cittadini, che solo poco tempo fa sarebbe stata considerata una folle eresia. Fa bene la sinistra ad approfittare di queste crepe, per lanciare la sua proposta di un Quantitative Easing for the people.
Ma tutto ciò ha un senso e una possibilità pratica solo se riparte la lotta per la ridistribuzione della ricchezza là dove essa si forma, cioè nei luoghi di lavoro e di produzione. È’ lì, dopo decenni di spostamento dei redditi dal lavoro ai profitti, che deve ripartire una migliore e più equa distribuzione. Dopo è troppo tardi.
Solo così, con maggiore occupazione e retribuzione, si può difendere il futuro di questa generazione, che non vorremmo rassegnarci a vedere perduta. Per questo motivo appare stonata la polemica che si è aperta fra il presidente dell’Inps Tito Boeri e Susanna Camusso. La leader della Cgil lo accusa di fornire un quadro talmente deprimente da finire per scoraggiare tutti, i giovani in primis. Ma la realtà è quella che è.
Quando Boeri dice che la generazione degli anni ’80 rischia di essere costretta a lavorare fino a 75 anni e ricevere un assegno inferiore di un quarto, non racconta fole. È semplicemente l’effetto delle norme introdotte a suo tempo dalla legge Fornero-Monti, per cui chi va in pensione con il sistema contributivo – avendo iniziato a lavorare dopo il 1996 – può ritirarsi dal lavoro solo se rispetta un certo limite di reddito. Più questo è basso, più discontinuo e precario è il lavoro, più tardi avrà la possibilità di lasciarlo. La giustificazione fu quella di evitare pensioni misere. Pura ipocrisia, che adesso esplode, venendo il tempo in cui c’è chi ha la prospettiva di andare in pensione con il solo contributivo.
In realtà è proprio quest’ultimo che andrebbe messo sotto accusa. Sono i meccanismi perversi che esso ha instaurato a minacciare nel profondo il diritto a un’equa pensione e a spezzare la solidarietà generazionale, funzionale al mantra dei vecchi che rubano il futuro ai giovani tanto caro ai governi di centrodestra come di centrosinistra in tutti questi anni. E questo ovviamente Boeri non lo fa. Ma allora è sul versante della mancata coerenza che andrebbe criticato. Non certo per eccesso di allarmismo.
Per quanto si possa comprendere che avendo le organizzazioni sindacali aperto una certa conflittualità, anche se per ora a troppo bassa intensità, sul tema delle pensioni – possano lecitamente temere che il governo si avvantaggi della presenza in campo di ulteriori posizioni e soggetti per sviare il confronto, la mossa più saggia è sempre quella di fare proprie le denunce altrui, purché fondate. Tanto più se, al fondo, ti danno ragione.
Questo articolo è stato pubblicato dalla Fondazione Luigi Pintor il 21 aprile 2016