di Bruno Simili
Negli ultimi giorni si è cominciato a parlare del referendum che ci chiamerà alle urne il prossimo 17 aprile. In verità i quesiti referendari in origine erano otto, ma la Corte costituzionale ha salvato solo questo:
«Volete voi che sia abrogato l’art. 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, “Norme in materia ambientale”, come sostituito dal comma 239 dell’art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di Stabilità 2016)”, limitatamente alle seguenti parole: “per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale”?».
L’assoluta incomprensibilità per l’elettore obbligherebbe le forze politiche, e i media, a un tentativo di chiarezza. Al contrario, come sempre accade, è la migliore occasione per «interpretarlo» e strumentalizzarlo a proprio comodo. Proviamo a capirci qualcosa.
Primo. Il referendum non chiede di eliminare le trivellazioni che, anzi, il governo con il decreto cd. «Sblocca Italia» non ha certo limitato, semplificando gli iter per le concessioni di ricerca e lo sfruttamento degli idrocarburi, togliendo potere alle Regioni (su questo torneremo) e prolungando i tempi delle concessioni.
Secondo. Il referendum non chiede di eliminare tout court le trivellazioni in mare.
Terzo. Il referendum non chiede di eliminare tout court le trivellazioni in mare entro le 12 miglia, poiché la legge permette le trivellazioni anche entro le 12 miglia alle società che già avevano avuto l’autorizzazione a farlo. Più semplicemente, votando «sì» non potranno essere rinnovate le concessioni quando queste scadranno. In pratica, come ha ben spiegato Vincenzo Balzani (scienziato dell’Università di Bologna, Accademico dei Lincei, coordinatore di energie per l’Italia) il referendum «tocca» 21 piattaforme di estrazione su 50, sempre entro le 12 miglia. Non le restanti 39, sempre che il quorum venga raggiunto e alla fine prevalgano i «sì».
È un referendum irrilevante? No, per molti motivi. Innanzitutto per uno semplicemente costituzionale: è stato richiesto da 9 consigli regionali (ed è la prima volta che accade, in precedenza tutti i referendum si sono tenuti con la raccolta delle firme di almeno 500.000 elettori) e ha superato l’esame della Corte costituzionale. In secondo luogo, perché mette in rilievo il crescente conflitto di attribuzione tra Stato e Regioni: non a caso, tra i punti più discussi dello Sblocca Italia c’è proprio la volontà dello Stato di riappropriarsi in ultima istanza del via libera sule opere considerate di «strategiche», bypassando la volontà delle Regioni e le Valutazioni di impatto ambientale.
In terzo luogo – ed è forse questo il punto decisivo, se solo vivessimo in un Paese dove chi governa cerca di farlo con uno sguardo medio-lungo – il referendum chiama in causa la nostra capacità di guardare alle grandi questioni climatiche, ambientali ed energetiche coerentemente con quanto è stato discusso e, infine, seppure con un accordo al ribasso secondo molti osservatori, deciso a Parigi in occasione della grande conferenza Cop21. Tutti, incluso il nostro governo, si sono gloriati del risultato raggiunto. E poi?
L’importanza del referendum rispetto a una moderna strategia energetica nazionale resta dunque indipendentemente dalla limitatezza degli effetti che una eventuale approvazione porterebbe sui processi di estrazione di idrocarburi nel nostro Paese. Risultano così infondati i timori, portati avanti dal fronte del «no», che «altri» non meglio identificati (si suppone stranieri) vengano a perforare i nostri mari. Entro le 12 miglia la legge vieta nuovi impianti. C’è poi il tema occupazionale, anch’esso da parametrare rispetto alle attività che, alla fine, risulterebbero eventualmente coinvolte dalla vittoria del «sì». Ma la questione occupazionale è molto spesso messa sul tavolo quasi in forma ricattatoria quando si parla di tutela della salute e di ambiente (basti pensare al caso Ilva). Del resto, il «sostegno all’occupazione» era al centro anche dell’emendamento a cui si riferiva la ministra Guidi nella, ormai nota, telefonata a Gianluca Gemelli, contenuto nella Legge di Stabilità per il 2015, approvata nel dicembre 2014. Un emendamento volto a sbloccare «l’effettiva realizzazione dei progetti per la coltivazione di giacimenti di idrocarburi», come quello Total di «Tempa Rossa» (Corleto Perticara) in Basilicata, oggetto dello scandalo e delle successive dimissioni della ministra; e volto a garantire «il regime di autorizzazione unica a quelle opere e infrastrutture necessarie e indispensabili per assicurare il loro sfruttamento», dando «significativo impulso all’occupazione».
Difficile dire quanto c’entri realmente l’occupazione in questo caso. Mentre una visione più coerente con gli obiettivi di Cop21 rivolta alle rinnovabili porterebbe con sé, questa sì, nuovi posti di lavoro.
Questo articolo è stato pubblicato da Il mulino il 1 aprile 2016