Gli attentati di Bruxelles e noi: tra cattiva informazione e cattiva coscienza

24 Marzo 2016 /

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di Marco Trotta
Il copione lo abbiamo già visto con gli attentati di Parigi. Domani le pagine dei giornali saranno piene di cronache più o meno dettagliate. Ma intanto i social network si stanno riempiendo di commenti di ogni tipo e di immagini virali come questa diffusa da Le Monde. Vale la pena avere qualche punto di riferimento per non perdersi. Elenco quelli che ho trovato più utili in queste ore. (aggiornato al 23/03/2016 – 11:22)
Le fonti prima di tutto
Valigia Blu aveva pubblicato alla fine dell’anno scorso un utile Manuale di sopravvivenza alle breaking news dove, tra le altre cose, si invita a diffidare della marea di informazioni diffuse sui social network senza una fonte certificata. E non è solo un problema di pagine di sedicente contro informazione e non meglio specificati testimoni oculari. Ci sono cascati. Anche fior di giornalisti blasonati che hanno diffuso la voce di “spari” e “grida arabe” dopo le esplosioni senza citare nessuna fonte. Del resto il problema dell’utilizzo di contenuti provenienti dalle miriade di cellulari che generalmente sono attivi in questi casi esiste. Le testate estere chiedono prima di certificare la fonte.


Da noi, invece, può capitare che sul sito dell’ansa venga diffuso un video che si riferisce ad un attentato a Mosca del 2011.


Il brand ISIS e la cattiva coscienza europea
C’è una interessante analisi di Bruno Ballardini sul marketing che non nasce necessariamente per vendere qualcosa, ma per fidelizzare un marchio con i suoi consumatori con strumenti ed approcci mutuati dalle tattiche di guerra. Una cosa che l’ISIS, o comunque il terrorismo internazionale, dimostra di aver capito bene come si spiega in Isis, il marketing dell’apocalisse. Un’attenta analisi dei meccanismi di spettacolarizzazione e sensazionalismo qui da noi, in occidente, che grazie ai media di massa e alla febbre da social network rende la propaganda virale con poca spesa.

La propaganda divenne l’arma principale nelle strategie di marketing moderne cioè, di fatto, la loro traduzione in termini di comunicazione. Occorre, dunque, analizzare prima di tutto la comunicazione per risalire alle strategie […].
Le tecniche di marketing adottate dall’isis non sono affatto nuove. Ciò che è assolutamente nuovo è il loro uso in un contesto bellico e il fatto che vengano utilizzate tutte, da quelle più «antiche» a quelle più recenti, contemporaneamente. Si va dalle strategie orientate al prodotto, a quelle orientate ai consumatori, a quelle dirette agli stakeholder, e poi al positioning, (7) al naming, al branding,(8) al rebranding, alla comunicazione strategica, all’uso dei social media, al merchandising via web, fino ad arrivare intuitivamente all’ultimo sviluppo del marketing secondo il suo padre fondatore Philip Kotler, il marketing dell’anima.(9)
Risulta però difficile pensare che tutto questo nasca spontaneamente grazie all’estro e all’improvvisazione di una manciata di mujaheddin nelle pause dei combattimenti. Sarebbe la prova che le popolazioni locali abbiano assimilato il marketing più di quanto non sia familiare a noi, e che lo usino con perizia tale da non aver bisogno di pianificare nulla (anche se il marketing è, prima di tutto, pianificazione) escogitando all’impronta azioni tattiche e azioni strategiche di comunicazione, come nessun apparato militare sarebbe in grado di fare nella guerra vera.

Peccato che dall’altra parte l’Europa dimostri una buona dose di cattiva coscienza nella sua lotta al terrorismo. Un’inchiesta dell’EIC, European Investigative Collaborazions, pubblicata dall’Espresso ha dimostrato che in Europa circolano molte armi. Vengono definitive non letali o “armi di dissuasione” per sparare a salve, per esempio, o da tenere in bella mostra in casa. Provengo spesso dall’ex blocco dell’est, dove sono state disattivate per essere vendute liberamente e magari finire senza controlli in mani pericolose che possono riattivarle come armi letali. Due di queste, fucili d’assalto Ceska VZ 58, sono stati usati da Amedy Coulibaly il 9 gennaio 2015 nella strage del supermercato kosher Hyper Cacher nel XX arrondissement di Parigi. E non solo.

Ci sono vecchie pistole che possono ancora uccidere, come ad esempio il revolver russo Nagant, modello 1895, realizzato nel 1932, che è stato trovato in un appartamento di Coulibaly. O il non marcato FN Browning belga, ottenuto da Abdelhamid Abaaoud, la mente dietro gli attacchi al Bataclan club di Parigi. Ci sono le armi rubate all’esercito o alla polizia, utilizzate durante l’assalto di Copenaghen che ha lasciato sul terreno due morti e cinque feriti.
Pericolosi sono inoltre i veri kalashnikov, immagazzinati in cantine private in tutti i Balcani, che finiscono per essere venduti nei bazar e poi viaggiano verso l’Europa occidentale nascosti in bus turistici o nelle automobili.
Dopo l’attacco contro Charlie Hebdo, in cui sono rimaste uccise 12 persone, due di questi AKM sono stati trovati dalla polizia in un’azienda di segnaletica pubblicitaria di Dammartin-en-Goele nell’Ile de France. E dopo l’attacco di novembre al Bataclan, che ha seminato 130 morti, altri sei kalashnikov di questo tipo sono stati trovati nel club e nelle auto usate dai terroristi per la fuga.

Grazie al principio della libera concorrenza sanciti degli articoli 34-36 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea, TFUE, si sta facendo poco per fermare un mercato lucroso. Per esempio sanzionando quegli stati membri che evitano controlli sulle riattivazioni illegali. Nel novembre 2015 Jean Claude Juncker, presidente della Commissione europea, consapevole del problema, dichiarava “Non accetteremo più che gruppi della criminalità organizzata possano ottenere l’accesso ad armi da fuoco”. Dal ricordare al prossimo “ce lo chiede l’Europa”
La guerra al terrore che sbaglia obiettivo
Per Jason Burke sul The Guardian, tradotto in italiano da Internazionale, prima di parlare di vendette immediate per l’arresto di Salah Abdeslam, “responsabile logistico degli attentati a Parigi dello scorso anno e arrestato a Bruxelles venerdì 18 marzo”, bisognerebbe prendere atto della solida rete locale che gli ha permesso di fuggire e nascondersi. Per concludere:

Nonostante la visione globale degli ideologi estremisti e la dimensione internazionale attribuita a gruppi come lo Stato islamico o Al Qaeda, questo terrorismo è soprattutto locale.
Negli ultimi decenni, quasi tutti gli attentati in Europa sono stati compiuti da persone del posto che hanno attaccato obiettivi locali con materiali e armi ottenuti localmente. È probabile che sia andata così anche nel caso degli attentati di Bruxelles.

Dello stesso avviso Alberto Negri su Il Sole 24 Ore che rispetto al grido “siamo in guerra”, ricorda che lo siamo da più di dieci anni in “Afghanistan, Iraq, Libia” seppur in ordine sparso e con molte ambiguità. Per poi concludere:

La ragione per cui il terrorismo è diventato tremendamente efficace anche in Europa è che si è guardato troppo al fronte esterno, illudendosi con i droni o i raid di sistemare la faccenda: una strada pericolosa che ha portato a trascurare quanto accadeva nella casa europea, nel complesso tessuto sociale delle nostre periferie, soprattutto del Nord. Sembra paradossale ma la guerra al terrorismo, quella intelligente, deve ancora cominciare davvero.

Questo post è stato pubblicato sul blog di Marco Trotta il 22 marzo 2016

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