Spagna: la sfida di governare 70 giorni dopo le elezioni

7 Marzo 2016 /

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di Maurizio Matteuzzi
Basta con i giochi e i giochetti “politiqueros”, con le schermaglie e i ballon d’essai. Adesso si fa sul serio e bisogna scoprire le carte. Martedì primo marzo, in Spagna, a 70 giorni dalle elezioni del 20 dicembre, è cominciata la partita vera. Che si annuncia dura, per certi versi drammatica in un Paese che nei 40 anni di democrazia post-franchista si è “nascosto” dietro un bipartitismo forzoso ormai insostenibile e non è abituato agli arzigogoli politici e ai machiavellismi imposti dalla necessità di formare coalizioni.
Martedì pomeriggio – “alle cinque della sera”, se il richiamo a García Lorca non appaia troppo azzardato – Pedro Sánchez, il segretario del Psoe a cui il 2 febbraio il re di Borbone ha dato l’incarico di formare il nuovo governo, si è presentato nell’arena, nella fattispecie le nuove Cortes madrilene, per chiedere la fiducia di fronte ai 350 deputati e nel silenzio ansioso degli 800 giornalisti accreditati (da tutto il mondo, perché l’evolversi della vicenda tocca da vicino non solo la Spagna ma la Germania, l’Europa, probabilmente anche oltre i suoi confini). Pronto per essere incornato esattamente come il povero torero di García Lorca.
Forte (anzi debole) dell’accordo “per un governo riformista e di progresso” firmato a sorpresa, mercoledì 24 febbraio, con Albert Rivera, leader di Ciudadanos, il nuovo partito “di centro-destra” uscito dal terremoto elettorale del 20 dicembre, Sánchez in un discorso di 96 minuti ha battuto sul tasto del “governo di cambiamento e di dialogo”, imperniato sul Psoe e rivolto essenzialmente a Podemos (l’offerta di una Ley de emergencia social ; la imprecisata deroga, peraltro subito smentita dal suo partner “centrista”, dell’iper-liberista “reforma laboral” imposta dal governo Rajoy; qualche vaga apertura alle istanze catalaniste).

Non aveva alcuna possibilità di passare alla prima votazione, fissata per la serata di mercoledì 2 marzo, che richiedeva la maggioranza assoluta di 176 voti. I socialisti e i “cittadini” potevano contare su 131 voti (90 più 40, più il voto della deputata di Coalición Canaria). Tutti gli altri annunciavano il no- a destra il Partido Popular del premier uscente (e squalificato) Mariano Rajoy; a sinistra Podemos del carismatico Pablo Iglesias e i resti della Izquierda Unida di Alberto Garzón (rispettivamente 123, 69 e 2 seggi); più i partiti regionali che a destra, al centro o a sinistra restavano tuttavia inamovibili nella pretesa del riconoscimento del loro “diritto” alla secessione per via referendaria, un’ipotesi esclusa dai “Ciudadanos” di Rivera ma anche dai socialisti di Sánchez. In totale 219 voti contrari.
La seconda votazione era fissata dopo 48 ore, venerdì 4, quando era richiesta solo la maggioranza relativa. Anche in quel caso le previsioni erano infauste per il governo di centro-sinistra-centro-destra Sánchez-Rivera. A meno di un coup de théâtre – l’astensione dei “popolari” o quella di Podemos – che alla vigilia veniva data per impossibile e che in effetti non c’è stata. Tutte le parti in causa hanno ribadito le loro posizioni annunciate. Il risultato era scontato.
Con la fumata nera al primo round, si dovrà ricominciare da capo, con sempre più nervosismo e con sempre meno tempo. Il re, che fermo nel suo ruolo di “neutralità” costituzionale non ha commentato l’esito delle prime due votazioni e lunedì 7 doveva ricevere al palazzo reale della Zarzuela il presidente delle Cortes Patxi López per riavviare l’iter delle consultazioni, dovrà conferire un nuovo incarico.
Allo stesso Sánchez, a cui, nel caso non sia stato definitivamente bruciato dalle due brutte incornate ricevute, va riconosciuto un certo coraggio politico? A Rajoy, che pare non volersi rassegnare a farsi da parte? Addirittura, ipotesi remotissima, all’aggressivo Rivera che continua a proporsi come la salvifica cerniera “di centro” fra il PP e il Psoe nella prospettiva della “necessaria” grande coalizione? In ogni caso sono già scattati i due mesi previsti dalla costituzione per i tentativi di formare una coalizione: o entro il 2 maggio le Cortes avranno dato la fiducia al nuovo governo o sarà inevitabile lo scioglimento del parlamento e il 26 giugno si tornerà al voto.
Per ora le bocce sono ferme. Tutti contro tutti. A rimpallarsi la responsabilità di una impasse sempre più drammatica. Ma, passato invano anche venerdì 4 marzo, le bocce dovranno cominciare a girare davvero. Le ipotesi sono molte.
Sánchez avvierà negoziati con Podemos (gli stessi che hanno reso possibile la formazione di maggioranze di sinistra in molte delle maggiori amministrazioni locali) rompendo “l’accordo storico” con Ciudadanos, che il partito degli “indignati” considera a ragione, almeno finora, “incompatibile”: o noi o loro? Improbabile, perché Sánchez, che ha confermato la vigenza dell’accordo con Rivera, ha – per limitarsi solo alla Spagna – almeno mezzo partito contro (i “baroni” socialisti; “la sultana” Susana Díaz, presidente dell’Andalusia, che aspira a prenderne il posto al più presto; il penoso Felipe González che più invecchia più peggiora), i media più poderosi a cominciare da El País, i “poderes facticos” come si chiamano in Spagna i poteri forti.
L’impresentabile Rajoy accetterà di farsi da parte per dare una chance al PP o continuerà a rivendicare il suo jus primae noctis quale leader del “partito più votato” il 20 dicembre scorso?
Che farà Ciudadanos, il “Podemos di destra” (altro che “centro”!), quello che l’economista catalano Vicenç Navarro definisce “l’espressione politica dell’IBEX-35”, l’indice della Borsa di Madrid, “ancor più neo-liberista del PP”, ben al di là dell’ostacolo molto ostentato del “referendun sovranista in Catalogna”, soltanto un “pretesto del Psoe e delle destre” per lasciar fuori Podemos?
E che farà Podemos? Reggerà alle incalzanti accuse di “massimalismo” e nel suo rifiuto di entrare in un patto a tre con Psoe e Ciudadanos che, a giudizio (condivisibile) del partito di Iglesias, non sarebbe nient’altro, oltre che l’abiura delle ragioni stesse per cui è nato ed è stato votato, che la sanzione di “más de lo mismo”, una razione in più della stessa minestra avvelenata: la continuità, solo un po’ più light, di Rajoy, dell’austerità e della corruttela che hanno devastato la Spagna? E resisterà al ridicolo sofisma che dire no con la sua ostinazione al “governo di progresso e cambiamento” proposto dall’accoppiata Sánchez-Rivera, equivale a “spianare la strada a un governo di Rajoy”?
Sullo sfondo incombe lo spettro della grande coalizione a tre PP- Psoe-Ciuddanos, magari con Rajoy e Sánchez sacrificati dai loro partiti “per il bene del paese”. Un’ipotesi che piace ai poteri forti in Spagna e in Europa. Perché la Troika, la Germania, Bruxelles, le grandi corporazioni finanziarie, i “mercati”, dopo il caso di Syriza in Grecia pur se ormai ricondotto alla ragione, vedrebbero come il diavolo l’acqua santa l’irruzione nella stanza dei bottoni della quarta potenza europea di un movimento che si propone di “cacciar via dalle istituzioni” le politiche economiche e sociali “incompatibili con una vita decente”.
È ancora presto per capire in cosa sfocerà il confuso infighting in atto in Spagna dopo il benefico sconquasso del 20 dicembre. Lo sbocco più probabile resta quello di nuove elezioni in giugno. Ma è tutto da capire se anche quel voto sarà risolutivo. In ogni caso deve essere chiaro a tutti, e non solo a lorsignori, che l’hanno capito benissimo, che la vicenda spagnola va ormai molto, molto al di là della Spagna.

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