Il Venezuela, il chavismo e il ritorno agli orrori neoliberisti

20 Febbraio 2016 /

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di Maurizio Matteuzzi
Il Venezuela danza sull’orlo del baratro. C’è chi evoca analogie sinistre con il Cile allendista del ’73 o con il Nicaragua sandinista del ‘90. Probabilmente esagerate le prime, se non altro perché i militari venezuelani – maneggiati con cura dall’ex-colonnello Hugo Chávez – sono stati (finora) il baluardo armato della “rivoluzione bolivariana”. Probabilmente meno infondate le seconde perché i richiami con la disfatta sandinista nelle elezioni del ’90, risultato di una guerra sporca del reaganismo imperiale che voleva impedire “un’altra Cuba”, sono forti. Poi, nel 2007, Daniel Ortega riuscì a rivincere le elezioni, ma “il sandinismo” era ormai morto e sepolto.
Anche il chavismo – quel fenomeno che fece la sua clamorosa irruzione sulla scena politica del Venezuela e dell’America latina con il trionfo elettorale di Chávez del dicembre 1998 e, grazie al suo carisma personale e alla bonanza petrolifera dei primo decennio del 2000, prese poi le forme della “rivoluzione bolivariana” e, sebbene più confusamente, del “socialismo del XXI secolo” -, dopo il tracollo elettorale del 6 dicembre scorso, è morto?
Il de profundis non viene solo dalla classica (e classista) opposizione anti-chavista interna, divenuta ora maggioranza assoluta in parlamento dopo 17 anni di batoste e bocconi amari, e dalla destra internazionale che esulta, con in testa i soliti Vargas Llosa e Felipe González, per la liberazione “dal giogo chavista”. Anche nella sinistra politica e intellettuale venezuelana sono sempre più vasti i settori critici – spesso chavisti delusi, come Jorge Giordani, ex ministro del Poder Popular- con il governo di Nicolás Maduro e Diosdado Cabello, e la gestione del Partito Socialista Unito del Venezuela.

Maduro, dopo aver negato per due anni la gravità della crisi, ha incolpato “la guerra” di cui la rivoluzione è vittima da parte di Washington e della destra “golpista” interna.
La guerra c’è stata. Il crollo dei prezzi petroliferi è stato un colpo devastante che ha di certo anche un risvolto politico punitivo contro paesi indocili come la Russia di Putin e il Venezuela chavista. Il Venezuela, con un prezzo che in gennaio era di 21.63 dollari al barile, ha perso il 70-80% delle sue entrate in divisa. Corruzione, spreco, latrocinio, fuga di capitali, nepotismo, avidità della vecchia borghesia “parassitaria” e della nuova “boli-borghesia”, burocrazia, inefficienza, oscure manovre sui cambi hanno portato la situazione al limite di rottura.
Nel 2015 economia caduta dell’8%, inflazione al 275% e prevista al 720% nel 2016. Iperinflazione alle porte e voci di default sul debito estero. Non ci sono soldi per i programmi sociali e le “missioni bolivariane” e neanche per la produzione e l’importazione di alimenti e medicinali. Penuria, code, insicurezza, rabbia, frustrazione, emergenza economica, alimentare, umanitaria. Fino al l’assurdo di un paese fra i primissimi esportatori mondiali di greggio da un secolo in qua e con le riserve di idrocarburi più ricche del mondo (la Frangia dell’ Orinoco) costretto, in gennaio, ad acquistare un carico di 550 mila barili di greggio dagli USA. E di un paese fra i più fertili del mondo costretto ad importare il 70-80% degli alimenti.
Il chavismo dal 2012 al 2015 ha perso 2.5 milioni di voti, andati al MUD, il Tavolo di Unità Democratica, la eterogenea coalizione di una trentina di partiti, molto diversi fra loro, dai “socialdemocratici” alla destra liberista, e con obiettivi diversi.
Non è stata l’opposizione ad aver conquistato quei voti ma il governo Maduro-Cabello-PSUV ad averli persi. L’opposizione anti-chavista ha vinto esattamente nella stesso modo e per le stesse ragioni per cui nel 1998 vinse “l’uragano Hugo” spazzando via il rancido regime AP-COPEI, socialdemocratici-democristiani, che aveva fatto del “Venezuela saudita” il paese in cui l’80% della popolazione viveva nella povertà.
Un voto di castigo inferto da un corpo sociale che tuttavia non vuole rinunciare alle conquiste degli anni d’oro del chavismo (quando il barile era sui 100-150 dollari). Se è vero che Maduro ha un gradimento intorno al 20%, quello di Chávez è sempre oltre il 50% e l’opposizione non ha (ancora?) un leader credibile.
La crisi globale e la crisi venezuelana hanno messo in luce i limiti del chavismo e, pur con tutti i suoi meriti, dello stesso Chávez: l’incapacità di formare ed esprimere un erede politico credibile e di impiantare un modello produttivo che andasse oltre il petrolio. Maduro cerca di consolarsi e parla di “opportunità” per “un nuovo modello produttivo”. Di cui però neanche prima c’era traccia. Ora la “disconnessione” fra governo e partito da un lato e dall’altro la base e l’elettorato chavisti si sta rivelando enorme.
Il sogno di “sembrar petroleo”, seminare il petrolio, l’eterno obiettivo fin da quando un secolo fa il primo getto di oro nero sprizzò dal lago di Maracaibo, si è rivoltato in un incubo e il petrolio è tornato a essere quello che qualcuno chiamò “el escremento del diablo”. Il Venezuela rischia la paralisi politica con i due poteri contrapposti – governo e parlamento – che si delegittimano a vicenda.
Il primo obiettivo del nuovo parlamento insediato a inizio febbraio è costringere Maduro, subentrato nell’aprile 2013 alla morte di Chávez, a lasciare la presidenza “entro 6 mesi”. In un modo o nell’altro.
I rischi del muro-contro-muro ci sono tutti. Rischi politici, ma anche di uno scoppio sociale violento. Come fu quello del “Caracazo” dell’89, contro le misure di austerità imposte dall’FMI al presidente socialdemocratico Carlos Andrés Pérez, che fu il brodo di coltura del chavismo. Maduro giura che i programmi sociali non si toccano, ma la drammaticità della situazione economico-finanziaria rende difficile evitare misure di aggiustamento e austerità dolorosissime per un paese già allo stremo. Chi se ne farà carico, il governo chavista, se resterà in carica, o l’opposizione anti-chavista, se dopo il parlamento conquisterà anche il palazzo presidenziale di Miraflores?
La “rivoluzione chavista” aveva ridato speranza e dinamismo al Venezuela e al difficile processo di integrazione “bolivariana” dell’America latina, grazie alla visione politica e alla generosità petrolifera di Hugo Chávez. Ora la “rivoluzione chavista” è sotto schiaffo e chiamata a una fase decisiva in Venezuela e la crisi globale più fattori specifici interni di ciascun paese (generalmente peraltro dello stesso ordine di quelli che hanno portato al voto-castigo in Venezuela) hanno intaccato quella certa omogeneità progressista o “di sinistra” di quasi tutti i paesi del subcontinente – l’Argentina di Macri, il Brasile di Dilma, lo stesso Ecuador di Correa, unica eccezione virtuosa la Bolivia di Evo Morales.
Per il secondo anno consecutivo l’America latina è in recessione (meno 0.3% nel 2015) e i sintomi politici, economici e sociali indicano il pericolo di un ritorno agli orrori neo-liberisti delle “decadi perdute” degli ultimi 20 anni del ‘900 piuttosto che le grandi speranze del primo decennio del XXI secolo.

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