Chiara Saraceno: "La povertà in Italia è una emergenza sociale. Ecco cosa fare"

25 Gennaio 2016 /

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Chiara Saraceno
Chiara Saraceno
di Ignazio Dessì
Il tema è pressante, anche se inspiegabilmente se ne parla poco. È stato Tito Boeri a lanciare l’ultimo allarme parlando del pericolo povertà che incombe in Italia su talune fasce di popolazione. Il presidente dell’Inps ha denunciato la mancanza di strumenti efficaci di sostegno e ha parlato di sperequazioni sociali, a livello pensionistico e occupazionale. Ha rilevato come di questo passo saranno soprattutto i giovani e coloro che perdono il lavoro dopo i 55 anni a incontrare difficoltà. Ma com’è davvero la situazione nel nostro Paese? Ne abbiamo parlato con Chiara Saraceno, una delle sociologhe italiane più note e apprezzate.
Professoressa, negli ultimi 8 anni la povertà in Italia è aumentata. Crede siamo vicini ad una vera emergenza sociale?
“Non siamo ‘vicini’, siamo già in una emergenza sociale, anche se i nostri politici sembrano non accorgersene, o comunque non la considerano una priorità. L’Italia è uno dei paesi in cui la povertà è aumentata di più durante la crisi. In particolare, dal 2008 al 2013 è raddoppiata la povertà assoluta, passando dal 4 a quasi l’8% della popolazione che non riesce a consumare un paniere di beni essenziali. Si è anche riallargato il divario tra il Centro-Nord e il Mezzogiorno”.
Chi riguarda più precisamente tale emergenza? Il presidente dell’Inps fa riferimento a certe categorie e in particolare a chi perde il lavoro dopo i 55 anni.

“In realtà l’emergenza riguarda soprattutto i minori e le famiglie numerose, con tre o più figli minori. È un fenomeno che è emerso già a metà degli anni novanta, ma che si è acuito negli anni della crisi. Le ragioni principali sono almeno tre. La prima è che manca in Italia una politica non categoriale di sostegno al costo dei figli e quelle che ci sono escludono di fatto proprio i più poveri. Gli assegni al nucleo famigliare sono destinati solo alle famiglie di lavoratori dipendenti a reddito modesto, escludendo sia i lavoratori autonomi poveri, sia i disoccupati di lungo periodo poveri; le detrazioni fiscali per i figli a carico (come tutte le detrazioni, inclusi gli 80 euro per i lavoratori dipendenti) non sono utilizzabili dagli incapienti, cioè dai più poveri”.
Le altre ragioni?
“La seconda ragione è che manca una politica di sostegno alla occupazione femminile e alla conciliazione lavoro-famiglia. Le famiglie con figli, in particolare quelle numerose, sono più spesso famiglie monoreddito, specie se la donna è a bassa qualifica. Se si aggiunge che in queste famiglie spesso l’unico reddito è basso, si capisce come possa generarsi uno squilibrio tra numero dei consumatori famigliari e reddito disponibile. E’ il fenomeno dei lavoratori poveri e delle famiglie povere nonostante ci sia almeno un lavoratore”.
Ma – detto questo – anche per chi perde il lavoro dopo i 55 anni la vita non è facile.
“Detto questo, è vero che anche chi perde il lavoro dopo i 55 anni è particolarmente a rischio, perché difficilmente troverà un nuovo lavoro, specie con reddito adeguato, vista la competizione con i più giovani, che ‘costano’ di meno, in un mercato del lavoro comunque ‘stretto’. E’ una esperienza ben nota alle donne che magari devono (ri)mettersi sul mercato del lavoro in età matura per la fine di un matrimonio o per la disoccupazione del marito e che ora è balzata all’attenzione perché riguarda un numero crescente di uomini che non possono più, neppure se lo volessero, ricorrere al pensionamento anticipato come ammortizzatore sociale”.
Inappropriato stabilire priorità?
“Non mi metterei a discutere su chi debba avere priorità, i minori o i disoccupati anziani. Ricordo solo che la povertà sperimentata da bambini e ragazzi ha effetti di lungo periodo, sull’intera vita, così come la lunga disoccupazione o mancanza di lavoro sperimentata da giovani ha effetti che lasciano un segno negativo su tutta la vita lavorativa (si parla di scarring effect). E non dimentichiamo che abbiamo una delle percentuali di NEET (Not Education, Employment or Training, ovvero persone non impegnate nello studio, né nel lavoro e né nella formazione, ndr) più alta in Europa, con una forte concentrazione al Sud e con una maggioranza di donne”.
Perché l’allarme dovrebbe scattare soprattutto per chi ha meno di 65 anni?
“Se ‘sotto i 65 anni’ significa dagli 0 ai 64 anni sarei d’accordo, nella misura in cui per gli ultrasessantacinquenni poveri esistono già misure di sostegno al reddito: l’integrazione al minimo per chi ha una storia contributiva sufficiente (chi è andato in pensione prima della riforma Dini) e la pensione sociale per chi non ha una storia contributiva. Per chi non è in età da pensione non esiste invece una misura nazionale di sostegno al reddito. Se invece si pensa di individuare negli ultracinquantacinquenni una categoria specifica di poveri, per i quali pensare una misura ad hoc, non sono d’accordo. Occorre introdurre una misura universalistica, per tutti coloro che si trovano in povertà. La diversificazione dovrebbe avvenire solo rispetto alle misure di attivazione”.
Se continua così saranno dunque in primo luogo i più giovani ad avere problemi?
“Come ho detto prima, esiste nel nostro paese un serio problema di povertà minorile troppo sottovalutato. E i giovani che sperimentano lunghi periodi di disoccupazione rischiano di rimanere svantaggiati tutta la vita. Anche le mamme sole e i loro figli sono particolarmente rischio, perché sono tipicamente famiglie monoreddito in cui la principale se non unica procacciatrice di reddito deve conciliare famiglia e lavoro pressoché da sola. I più a rischio restano comunque i minori”.
Cosa dovrebbe fare lo Stato per arginare questa emergenza sociale?
“Sostenere la crescita dell’occupazione è importante, ma non basta, per diversi motivi: perché non sempre è buona occupazione e basta per uscire dalla povertà; perché nell’attesa che l’occupazione aumenti le persone che ne sono escluse hanno diritto ad una vita dignitosa, perché non tutti sono sempre e immediatamente occupabili. Oltre a sostenere la domanda di lavoro, occorre anche introdurre un reddito minimo non categoriale, unito a misure di attivazione mirate alle diverse situazioni, come avviene nella maggior parte dei paesi europei e certamente quelli con cui di volta in volta ci confrontiamo: gli scandinavi, la Francia, la Germania, l’Inghilterra.
Bisognerebbe anche aiutare le famiglie.
“Sì, occorre anche rafforzare le politiche di conciliazione lavoro-famiglia che sono particolarmente cruciali per le donne a bassa qualifica e reddito. Sarebbe utile anche un trasferimento per il costo dei figli (assegno per i figli) non categoriale, anche se eventualmente diversificato in base al reddito famigliare. E’ stato stimato che se in Italia ci fosse una misura di questo genere, molte famiglie di lavoratori poveri con figli uscirebbero dalla povertà . Si potrebbe cominciare razionalizzando le diverse misure frammentate che già ci sono in questo campo che sono poco efficienti nel ridurre la povertà: assegno al nucleo famigliare, detrazioni per figli a carico, assegno per il terzo figlio, bonus bebé”.
Inoltre?
“Anche una vera politica della casa che non si limiti a incoraggiare la proprietà ma si rivolga anche ai meno abbienti eviterebbe la caduta in povertà di famiglie a reddito modesto che non riescono a far fronte al costo dell’abitare. Infine occorre investire molto di più in politiche dell’accesso al lavoro e della formazione che siano particolarmente attente a chi parte svantaggiato”.
Più flessibilità in uscita con dei prepensionamenti potrebbe contribuire a ridurre la disoccupazione giovanile?
“In un periodo in cui la domanda di lavoro è ancora insufficiente, potrebbe aiutare. Ma la flessibilità in uscita, con tutti gli aggiustamenti che legittimamente richiede nel calcolo dell’importo pensionistico, dovrebbe valere come principio di libertà. In alcuni paesi, tra cui gli Stati Uniti, non c’è più un’età alla pensione definita per legge”.
Come lei accennava, in Italia manca un sistema di assistenza sociale di base come in altri Paesi . In Europa solo noi e la Grecia non abbiamo un reddito minimo di cittadinanza che dia a chi scivola nella indigenza la possibilità di vivere, cercare un nuovo lavoro, avere una dignità. Però si continua a dire che ciò sarebbe assistenzialismo. Cosa ne pensa?
“Ho già detto che sono favorevole all’introduzione di un reddito minimo e perché. Assistenza non è una brutta parola. Significa offrire un aiuto appropriato per il tempo necessario. Aggiungo che anche l’OCSE segnala che avere una garanzia di reddito può evitare che una persona e una famiglia esauriscano tutte le proprie risorse non solo materiali ma anche psicologiche e di capitale umano, rendendo poi più difficile uscire dalla povertà. Una garanzia di reddito dignitosa dà il tempo e lo spazio mentale per sviluppare strategie efficaci. Per questo, accanto al reddito minimo, è importante che anche le misure di attivazione siano pensate in funzione del rafforzamento delle capacità delle persone, e non solo in funzione di controllo o di contropartita”.
Solitamente si afferma che – in questo periodo di vacche magre – lo stato non ha soldi…
“Le risorse, è vero, non sono infinite. Ma è una questione di priorità. La grande maggioranza del parlamento ha deciso di togliere la tassa sulla prima casa, avvantaggiando i più benestanti. Gli 80 euro di detrazione per i lavoratori dipendenti a salario modesto (che escludono anche il lavoratori dipendenti più poveri) costano più di quanto non costerebbe un reddito minimo decoroso. I 500 euro una tantum ai giovani per consumi culturali rischiano di essere diversamente inutili per i più abbienti (che non ne hanno bisogno) e coloro che non hanno trovato nel loro percorso formativo stimoli adeguati a suscitare loro un interesse. I finanziamenti previsti nella legge di stabilità per l’estensione a tutto il territorio della cosiddetta nuova carta acquisti (ora sperimentata solo in alcuni comuni) sono una piccola inversione di tendenza, ma sono solo una piccola parte di quanto sarebbe necessario e molto inferiori a quanto stanziato per togliere la tassa sulla prima casa e per rendere strutturali gli 80 euro. E non si è perso il vizio di misure a pioggia e una tantum”.
L’emergenza e i sacrifici del resto non sono per tutti: ci sono persone che prendono una pensione da 6-10 mila euro al mese e c’è ancora chi gode di veri e propri privilegi.
“Fa parte del quadro. Come è stato osservato da diversi studiosi – Atkinson, Pikketty, Stiglitz, Franzina, per citarne solo alcuni – negli ultimi trentanni è aumentata la disuguaglianza. E la crisi ha in molti casi accentuato la polarizzazione”.
Questo articolo è stato pubblicato sul sito di Tiscali.it il 13 gennaio 2016

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